— 121 —
Questo contributo non si ripromette di esaurire il problema del riferi-
mento e
della polemica di Sesto Empirico a proposito di Platone ο dei
Pitagorici. Suo scopo
è esaminare una serie di passi importanti in ordine
a questo problema, sperando di
portare qualche certezza ulteriore, ο alme-
no qualche ipotesi plausibile, in una
materia che è della più grande proble-
maticità, e che ci pare vada riesaminata
prescindendo da qualsiasi presup-
posto dogmatico, ο da qualsiasi interpretazione
acquisita e data per scon-
tata. Nulla di scontato esiste nella ricerca storica in
generale, e in
particolare nella storia e nell’esegesi della filosofia antica.
Non si può parlare di Platone in Sesto Empirico se non partendo
dalla domanda
fondamentale: a quale categoria di filosofi Platone appar-
tiene? La questione è
naturalmente inquadrata in una cornice più ampia:
l’Accademia “scetticizzante” può
definirsi portatrice di una filosofia scet-
tica ο se ne distingue1? Perciò, nel passo (220-225) troviamo
schizzato
— 122 —
un rapido schema della successione delle varie Accademie, che
furono
anche portatrici di diverse immagini di Platone. Egli è stato definito
apo-
retico da alcuni, dogmatico da altri; altri ancora poi ritengono che
fosse
entrambe le cose, dogmatico sotto un aspetto, aporetico sotto un
altro.
Platone è dogmatico quando, parlando per bocca di Socrate ο di Timeo
ο di
altri, σπουδάζων ἀποφαίνεται (221); ma aporetico là dove introduce
Socrate nell’atto
di far uso della sua ironia ο della sua dialettica distrutti-
va. Sesto intende
quindi (o segue la sua fonte nell’intendere) aporia e
aporeticità alla maniera
dell’Accademia di Arcesilao ο di Carneade, come
riduzione controversistica
all’assurdo delle tesi avversarie; lo dice il fatto
che qui il
Timeo sia citato a proposito della σπουδή e non della παιδιά,
cioè come opera
in cui Platone espone allegoricamente, ma pur sempre
dogmaticamente, contenuto
dottrinale. Né l’Accademia antica, che al
Timeo aveva dato
significato allegorico-matematizzante, e tanto meno il
platonismo dei tempi di
Sesto, quel medioplatonismo che aveva fatto del
Timeo il cardine
della ricostruzione di Platone, pensavano del resto diver-
samente2. L’aporia di Platone, per Sesto, non ha nulla
a che vedere
con l’εἰκὼς λόγος.
Ma, ancora una volta: anche l’aporeticità intesa in questo senso può
veramente dirsi
scetticismo? Sesto cita a questo proposito fonti scettiche,
come Enesidemo e,
probabilmente (il nome è frutto di ricostruzione filo-
logica, avanzata dal
Fabricius e confermata dal Natorp), Menodoto, il
medico empirico Menodoto di
Nicomedia, maestro del maestro di Sesto
stesso, Erodoto, affermando di attenersi
alle opinioni di questi3.
La sua
— 123 —
conclusione è che, in ambito scettico, si preferisce ritenere Platone
un
dogmatico, non solo quando parla delle idee, ο della provvidenza, ο del
tipo
di vita da scegliersi: anche quando si aggira nel campo del verosimile,
non può
esser considerato uno scettico, per la semplice ragione che di-
chiara qualcosa
preferibile nel giudizio (223, προκρίνει), mostrando così
di valersi di criteri di
credibilità maggiore ο minore, πίστις, ἀπιστία. Ma
così è anche quando γυμνάζεται,
compie un puro esercizio dialettico: non
è questo che caratterizza lo scettico vero;
e sta qui la presa di distanza
decisa da quel tipo di aporeticità controversistica
che aveva dominato
l’Accademia da Arcesilao a Clitomaco e Carmada, e che altro è dal
feno-
menismo puro predicato dai Neopirroniani.
È citato subito dopo lo scettico antico Timone, per un giudizio dato
nei Silli su Senofane (224); forse citazione che Sesto attinge dalle
sue
fonti. Le conclusioni che egli raggiunge (225) sono del tutto coerenti
alle
opinioni sopra espresse: Platone non è mai uno scettico, perché si
pro-
nuncia sull’esistenza (ὕπαρξις) di realtà oscure ο le dichiara pur
sempre
preferibili nel giudizio in base a πίστις. Ciò lo divide da quel vero
scetti-
cismo che ha anch’esso i suoi dogmi, rovesciati rispetto a quelli
delle
altre filosofie: non esprimersi mai su ciò che è ἄδηλον, attenersi ai
puri
φαινόμενα.
La discussione sul carattere della filosofia di Platone affonda le sue
radici ben
più lontano. Sesto conosceva certo sia l’immagine di Platone
presentata
dall’Accademia di mezzo, il Platone socratico, aporetico-dia-
lettico, di
Arcesilao4, sia — almeno per tramiti — quella metafisico-
dogmatica
dell’Accademia antica, ripresa del resto più di recente, a suo
modo, da Eudoro
Alessandrino e dal platonismo medio. Non stupisce
tuttavia che, in questa materia,
egli non voglia ricorrere al giudizio dei
— 124 —
Platonici su Platone, se non per rapidi
accenni, e che si soffermi invece,
e in forma conclusiva, sulle opinioni degli
Scettici suoi predecessori.
L’Accademia aporetica ha compiuto troppe confusioni fra
scetticismo e
ambigue forme ad esso semplicemente affini per potersi affidare ad
un
suo giudizio.
È un luogo in certo senso parallelo a quello già visto, ma con un
certo spostamento
di piano. Quale tipo di filosofia era quella che Platone
professava? Viene
nuovamente citato Timone scettico: giustamente egli
rimproverava a Platone di aver
alterato la figura di Socrate5. Questi, il
λαοχόος ἐννομολέσχης
(«l’artigiano ciarliero di legalità») aborriva in real-
tà dalla fisica, ed è stato
il suo discepolo Platone ad “ornarlo” della cono-
scenza delle più varie discipline,
facendone (nei dialoghi) un cultore di
logica, fisica, etica, cioè della filosofia
nella sua totalità. In verità, chiosa
Sesto, Socrate non fu mai altro che un
ἠθολόγος, e la tripartizione della
filosofia non può essergli attribuita. La
tripartizione della filosofia è co-
minciata veramente con Senocrate (13-16);
tuttavia Platone può esserne
considerato, δυνάμει, virtualmente, ἀρχηγός.
Sembra probabile che il discorso secondo cui Platone stesso sarebbe
in realtà
l’autore della tripartizione sia da farsi risalire autenticamente
a Senocrate. Esso
corrisponde alla impostazione costante che Senocrate
dava al suo discorso: ritrovare
in Platone il modello primo di ogni posizio-
ne da lui sostenuta, porre sempre
Platone quale origine e antecedente
immediato delle sue tesi6. Più tardi, questa tesi doveva prevalere, e
Platone stesso sarebbe
stato considerato autore del τριμερὴς λόγος, ο
ratio triplex7. Ma l’indicazione di Senocrate è per noi
preziosa: Senocrate
— 125 —
probabilmente aveva già compiuto una prima rozza divisione dei
dialoghi
platonici secondo il loro contenuto λογικόν — di esercitazione
dialettica,
φυσικόν (ove φύσις ha il significato platonico di “ordine razionale”,
“or-
dine intellegibile”, e abbraccia solo di riflesso il mondo del
sensibile),
ἠθικόν — di carattere prevalentemente morale ο politico. Che questo
tipo
di divisione corresse già nell’Accademia antica lo dice il fatto che
Aristo-
tele (top. A 14.105 b 19) accenna a προτάσεις che
possono essere λογικαί,
φυσικαί, ἠθικαί: che la tripartizione sia applicata al campo
della logica
ci dice che essa è già presupposta in generale. Dall’Accademia
doveva
poco più tardi mutuarla Zenone di Cizio e renderla fondamentale per
tutta
la filosofia posteriore.
La testimonianza contenuta in questo brano riguarda Platone (141-
144), Speusippo
(145-147), Senocrate (147-149). Le è stata data impor-
tanza fino ad oggi
soprattutto come testimonianza sui primi Accademici,
della cui opera nulla ο quasi
ci rimane; e assai scarsamente per ciò che
si riferisce a Platone8. Occorre invece qui considerarla nella sua
unità,
perché essa è concepita in un’ottica, unitaria, di rivalutazione della
cono-
scenza sensibile, con trapasso di continuità e non di opposizione da
Pla-
tone ai discepoli; e il modo come essa ci presenta Platone, con il
cui
— 126 —
dialogo scritto possiamo confrontarla, può essere illuminante anche
per
l’interpretazione di Speusippo e Senocrate, là dove non abbiamo
alcuna
possibilità di confronto.
Sesto descrive la teoria di Platone in un linguaggio scopertamente
ellenistico,
affermando anzitutto che Platone ha posto il λόγος come
κριτήριον τῶν πραγμάτων
γνώσεως (141). Il termine di κριτήριον in Pla-
tone non manca, ma il suo uso tecnico
e la sua centralità nella gnoseologia
appartengono a un ambito filosofico
ulteriore9. In Platone, lo troviamo,
ad esempio, a proposito di
Protagora (Theaet. 178 b), là ove questi è
pre-
sentato come certo di possedere, nella conoscenza soggettiva, la regola
e
norma del giudizio sulle cose; ma certo Platone non ne ha ancora fatto
un terminus technicus della sua gnoseologia né tanto meno si è posto
il
problema di un “criterio” della conoscenza sensibile. La fonte dalla
quale
Sesto attinge, al contrario, si preoccupa di dimostrare che Platone non
ha
rifiutato, nell’atto di stabilire il criterio ο i criteri, la sensazione, ma
ha
usato di un concetto come quello di λόγος capace di comprendere
(συμπεριλαβών) la
stessa sensazione; ciò per riguardo alla ἐνάργεια ο chia-
rezza, evidenza, che c’è
nella sensazione. Ecco quindi che si fa uso, per
l’esegesi di Platone, di un’altra
parola non ignota a Platone stesso, ma da
lui non tecnicizzata; una parola che
Platone usa in senso generico, e non
riserva all’esperienza sensibile (si pensi a
passi quali Soph. 234 d, ove la
forma
avverbiale ἐναργώς è strettamente allacciata a quella ἐφάπτεσθαι
τῶν ὄντων, che
indica l’intuizione dell’essere e del vero; ο a Phil. 34 c,
ove
ἵνα [...] ἐναργέστατα λάβοιμεν si riferisce all’anima libera dai sensi
e capace di
piacere puro). La parola ἐνάργεια assumerà grande impor-
tanza, in riferimento
all’esperienza sensibile, con Epicuro; ma non è certo
da Epicuro che Sesto e la sua
fonte la mutuano. Lo stesso Sesto, poco
— 127 —
prima, ci dice (adv. log.
i 218) che Teofrasto considerava la ἐνάργεια ο
evidenza una
specie di trait d’union, il criterio per eccellenza
dell’intellegi-
bile e del sensibile, una sorta di tratto unificante fra i due tipi
del cono-
scere. Ma, andando ancora più oltre, si può notare come ἐνάργεια
fosse
diventata, con Filone di Larissa, parola importante del vocabolario
acca-
demico: non opponeva forse Filone la perspicuitas, di cui
Cicerone ci par-
lerà più tardi, alla comprehensio ο κατάληψις
degli Stoici10?
La fonte di queste notizie su Platone è indicata da Sesto col nome,
in lui peraltro
insolito, di πλατωνικοί. “Platonici” non vuol dire necessa-
riamente “Accademici”, e
Sesto potrebbe con questa espressione aver vo-
luto indicare Platonici più tardivi.
Ma difficilmente per l’individuazione
si può andare oltre i limiti della filosofia
ellenistica. E d’altronde con
ἀκαδημαiκοί Sesto si riferisce ai filosofi
dell’Accademia di mezzo e
nuova, a posizioni cioè aporetiche ο probabilistiche11.
Tutto ci porta, e
un’analisi più approfondita del passo non può che confermare
questa tesi,
all’Accademia tardiva e stoicheggiante di Antioco di Ascalona12.
— 128 —
I Platonici di cui Sesto parla ragionano tenendo sott’occhio un testo
di Platone, Tim. 28 a-29 a: e dal
verbo περιλαμβάνειν che vi è contenuto
ricavano un terminus
technicus non di Platone, λόγος περιληπτικός, inten-
dendo per questo un
discorso razionale che abbraccia insieme la sensazio-
ne e la noèsi. In effetti
λόγος è usato qui da Platone (con richiamo in
Tim. 52 a) in un senso assai largo, come ciò che comprende e
afferra
sia le realtà oggetto di νόησις sia quelle oggetto di δόξα; realtà che
però
vengono poi nello stesso Timeo rigidamente contrapposte,
così come con-
trapposte sono le facoltà che le conoscono. Per la scuola da cui è
scaturita
la fonte di Sesto, probabilmente l’Accademia stoicheggiante, λόγος è
ciò
che sopravviene a giudicare quella ἐνάργεια sensibile che, se non è di
per
sé autosufficiente, è pur sempre lo ἀφητήριον, il punto di partenza
di ogni
conoscere (143-144). Da essa è necessario prendere le mosse per
giungere alla κρίσις
τῆς ἀληθείας, al giudizio circa la verità: la ragione
(λόγος) è il criterio della
veridicità dell’evidenza sensibile. Ma in tal modo
la sensazione si pone come
συνεργός rispetto al λόγος, e la sua evidenza
è considerata un valore: è accogliendo
e criticando, sottoponendo a giudi-
zio, la rappresentazione dei sensi (φαντασία,
nel linguaggio ellenistico)
che si arriva alla νόησις e alla scienza (ἐπιστήμη) del
vero.
È evidente che ci troviamo di fronte ad una precisa esegesi di Plato-
ne, che innova
non poco rispetto alla teoria platonica in sé considerata.
Non è platonico, e già lo
abbiamo visto, l’uso di ἐνάργεια, che alla fine
di 141 viene chiarito dal genitivo
τῆς αἰσθήσεως e in 143 è contrapposta
ad ἀλήθεια come un tipo di conoscenza chiara
ed evidente sul piano doxa-
stico, come una conoscenza sensibile accertata e che
deve la sua certezza
alla sua intrinseca evidenza; motivo proprio della gnoseologia
ellenistica.
È probabile che gli autori ο l’autore di cui Sesto parla avessero l’occhio
volto non
solo al Timeo, ma al Teeteto, là ove si parla
della sensazione
usando il paragone (che sarà poi così fecondo nella filosofia
ulteriore) della
impressione fisica, ἀποτυποῦσθαι, ἐνσημαίνεσθαι, come avviene per
la ce-
ra sotto le dita (Theaet. 191 d
sgg.); ο ancora al Teeteto là ove si afferma
che esiste una
ἀληθής, ο ὀρθή δόξα, una conoscenza doxastica “certa”,
e quindi “vera” nel suo
ambito (194 b, 202 c-d)13.
Ma, nonostante
— 129 —
tutti i possibili riscontri, altro è il modo di Platone nel tracciare
i rapporti
fra conoscenza sensibile e conoscenza intellegibile. Il modo di
raggiungere
la verità intellegibile, la conoscenza noetica, non è certo per Platone
la
διάκρισις τῆς ἐναργείας, intendendosi per quest’ultima l’evidenza
del
sensibile. Se la sensazione è occasione di “ricordo” e di “stimolo” (e
ciò
per il Platone socratico-pitagorico, fedele alla teoria della anamnesi),
la pura
noèsi, l’intuizione intellettuale, si attinge ο attraverso le forme,
purificate dal
sensibile, della conoscenza matematica (resp.
vi 506 c sgg.),
ο attraverso l’esercizio
dialettico della prova e riprova dei concetti (epist.
vii 344 b). Lo schema gnoseologico del “giudizio
della validità dei sensi”
è ellenistico e non platonico.
Ancora meno platonica è la conclusione del nostro brano, ove Sesto,
ο la sua fonte,
traggono la deduzione che il λόγος περιληπτικός può esser
detto, di fatto,
καταληπτικός (144, ὅπερ ἴσον ἐστὶ τῷ καταληπτικὸν
ὑπάρχειν). Non a caso si è detto
“Sesto ο la sua fonte”: perché a propo-
sito di questa conclusione, che ricupera
scopertamente il concetto stoico
di κατάληψις, ci si può ben a ragione chiedere se
si tratti di una sorta
di brusco salto dovuto a deduzione di Sesto (il quale
noterebbe che, a
questo punto, nulla più separa il discorso accademico dal discorso
stoico)
ο se si tratti di una deduzione propria della fonte, che accetta
l’identifica-
zione col concetto stoico di κατάληψις e la fa propria. Ora, è vero
che
il ciceroniano quam illi κατάληψιν vocant (acad. pr.
ii 6, 17) sembra ancora
porre una distanza fra la terminologia
di Antioco e quella stoica; pur ger-
manissimus Stoicus, Antioco
avrebbe ancora mantenuto una distanza nei
termini. Ma la frase degli
Academici non è poi così probante come indica-
zione di una differenziazione
netta. E la frase che troviamo in Sesto è
abbastanza ambigua, e sembra denotare un
certo passaggio: lo si chiami
come si vuole, questo ragionamento razionale fondato
sul sensibile, e che
lo comprende e lo abbraccia, è poi quello che gli Stoici
(mutuando in
realtà la loro dottrina alla scuola di Platone) hanno chiamato
καταληπ-
τικός ο κατάληψις14. Intendere il brano in questo
modo risolverebbe
— 130 —
ogni nostro dubbio in favore di Antioco, e di un Antioco forse in
pole-
mica con Filone, che non aveva compiuto il passo decisivo: riconoscere
la
validità della ἐνάργεια, è in definitiva accettare non solo la περίληψις,
ma anche
la κατάληψις.
Dopo questo Platone passato al bagno della filosofia ellenistica, ci
si può chiedere
se le cose, per ciò che concerne Speusippo e Senocrate,
vadano altrimenti: e qui la
difficoltà si complica per l’impossibilità del
confronto con testi a noi ignoti. Il
senso unitario del brano è: se Platone
ha considerato criterio della verità il λόγος
περιληπτικός, il quale esercita
la sua διάκρισις sulla evidenza dei sensi
comprendendo in sé sensazione
e superiore ragione giudicatrice, Speusippo per suo
conto ha conferito
dignità scientifica a un certo tipo di sensazioni, e Senocrate ha
esaltato
il ruolo della δόξα separandola dalla pura sensazione e assegnandole
come
suo campo conoscitivo una sfera intermedia dell’essere. Saggiare la
plausi-
bilità di queste attribuzioni comporta anzitutto, anche in questo
caso,
un esame del linguaggio in cui le teorie dei due discepoli di Platone
ven-
gono presentate.
Per Speusippo, più chiaramente che non per Platone, esiste un crite-
rio che si
applica alla conoscenza sensibile, e che è la ἐπιστημονικὴ αίσθη-
σις ο “sensazione
scientifica” (145). Egli avrebbe fatto distinzione fra
un tipo di sensazione
αὐτοφυής (elementare, immediata, congenita) ed una
sensazione di tipo “tecnico”:
questa seconda si caratterizza per la sua
partecipazione (μεταλαμβάνουσα) alla
verità intellegibile: il paragone che
serve meglio a descriverla è quello
dell’abilità tecnica delle dita del flauti-
sta, precisata (ἀπαρτιζoμένη) in base al
coesercizio con la ragione ο deri-
vante da calcolo razionale. Qui, rispetto al
discorso di Platone su riporta-
to, i piani sembrano spostarsi: non è più il λόγος
che raccoglie in sé anche
la sensazione in quanto questa gli è premessa necessaria
su cui esercitare
il suo giudizio, ma è la sensazione che può racchiudere in sé
elementi
dell’esercizio razionale e connaturarseli: una sensazione così educata
e
— 131 —
disciplinata può essere considerata di per sé “criterio della
conoscenza
sensibile” (145-146).
Anche in questa testimonianza le riserve sull’attribuibilità di tutto
questo a
Speusippo sono sensibili; ma certo si parte da un nucleo auten-
tico. E improbabile
che Speusippo parlasse di un “criterio della verità”,
così come non ne aveva parlato
Platone, e verosimile che questo schema
sia una forzatura operata dalla fonte
ellenistica. Ma anche a parte questo
cliché tipico, e che sa
sensibilmente di stoicismo, parecchi altri elementi del
linguaggio che Sesto usa ci
portano a questa fonte ulteriore. Sesto attri-
buisce a Speusippo il discorso
secondo cui la sensazione scientifica si com-
misura con l’esperienza tecnica,
poniamo, delle dita del flautista, le quali
non hanno la loro abilità ἐν αὐτοῖς
προηγουμένως τελειουμένη (in sé
perfettamente compiuta, non
pertinente di sua natura alle dita stesse): ma
essa richiede di essere “delimitata”,
tenuta nei suoi termini corretti (ἀπαρτι-
ζομένη) dal coesercizio della ragione. Usa
alcune espressioni che apparten-
gono al linguaggio sia peripatetizzante sia
stoicheggiante dell’ellenismo
maturo: di προηγουμένως abbiamo il primo esempio
diretto in Teofra-
sto, De igne, 1415, e la
parola è poi destinata a diffondersi. La usa, qui,
nel senso di una proprietà che
non interessa l’organo dei sensi (le dita,
in questo caso) essenzialmente e
primariamente in se stesse, ma attraverso
la mediazione di un esercizio razionale.
L’espressione era stata cara alla
Stoa nella sua fase, per così dire, di
transizione, la fase postcrisippea.
La troviamo, per esempio, nella definizione del
τέλος data da Antipatro
di Tarso (Stob. ecl. n 7, p. 76 W. = S.V.F.
iii Antip. 57), ove il più
tradizionale πρώτα κατὰ φύσιν viene
sostituito da προηγούμενα κατὰ
φύσιν. E nell’elenco delle cause resoci dallo
Pseudo-Galeno delle Definitio-
nes medicae (154 sgg. = S.V.F,
ii 354) troviamo, accanto alle stoiche αἰτία
— 132 —
προκαταρκτική e
αἰτία συνεκτική, ben note da altre fonti, anche la peripate-
tizzante αἰτία
προηγουμένη; potremmo forse pensare ad una aggiunta fatta
da Antipatro stesso, che
già abbiamo visto valersi del termine. Quanto ad
ἀπαρτίζειν, esso è analogamente
termine usato da Antipatro: la “definizione
della definizione” propria di questo
sottile logico, innovatore rispetto a Cri-
sippo, è quella di λόγος [...]
ἀπηρτισμένως ἐκφερόμενος (Diog. Laert. vii
60 =
S.V.F.
iii Antip. 23). Il termine avrebbe più tardi interessato i
com-
mentatori peripatetici; Alessandro d’Afrodisia darà una spiegazione
del-
l’esatto significato di ἀπαρτίζειν (“non oltrepassare la misura né in
eccesso
né in difetto”)16; Simplicio ci darà altre testimonianze sugli “Stoici”
che,
anche senza la citazione espressa di Antipatro, riportano una
terminologia
a lui molto vicina, in cui ἀπαρτίζειν non manca di comparire17.
Infine, la teoria di una doppia sensazione, una innata e immediata,
αὐτοφυής,
l’altra ἐπιστημονική ο scientifica, è recuperata da Diogene Ba-
bilonie, come ci
dice Filodemo (de mus.
ι, p. 11 Kemke = S.V.F. iii Diog.
Bab. 61). Non conosciamo il contesto; non potremmo stabilire se la
fonte
accademica che rivendica qui la dottrina a Speusippo si serva di
linguaggio
diogeniano. Quanto a Diogene, egli è famoso, com’è noto, per la
rivaluta-
zione della musica e la rivendicazione del suo ruolo, ed è probabile
che
anche la sua “sensazione scientifica” si valesse di paragoni musicali18.
C’è dunque qualcosa, nel brano di Sesto, che ancora possa
essere attribui-
to a Speusippo?
In realtà nulla vieta che a Speusippo risalga la forma ἐπιστημονικὴ
αἴσθησις, e che
suo sia anche il paragone con l’abilità tecnica del musico.
— 133 —
Certo, possiamo ancora notare che l’espressione di essa come di un atto
(ἐνέργεια)
capace di cogliere (ἀντιληπτική) l’armonico e il disarmonico
porta in sé qualcosa di
sospetto per la presenza del concetto di ἀντί-
ληψις, ellenistico anch’esso (per non
parlare dell’uso epicureo, Sesto
Io riporta qui più oltre, in adv.
log.
ι 242, in un contesto stoico, in cui
si parla della teoria
della κατάληψις; mentre non è conosciuto in senso
gnoseologico in Platone),
Tuttavia, la formula ἐπιστημονική non è aliena
dall’uso platonico-accademico. Se in
Platone troviamo έπιστημόνως, fog-
giato sull’aggettivo ἐπιστήμων
(resp.
vii 534 d; Theaet. 207 β e altrove),
è ancor più interessante che in Aristotele
(eth. eud. Β 3.1220 b 25)
si trovi l’espressione
ἐπιστημονικὴ πρᾶξις, la cui formulazione può ricor-
dare quella qui attribuita a
Speusippo. Neanche il termine contrapposto,
αὐτοφυής, è estraneo a Platone; anzi è
presente nei dialoghi nelle due
accezioni di “connaturato” (Prot.
321 b; resp.
vi 486 d; leg.
vii 794 a)
e “spontaneo”
(resp.
vii 520 b; Soph. 266 b).
Se l’attribuzione di ἐπιστημονική αἴσθησις a Speusippo è giustificata
sotto
l’aspetto terminologico, lo è anche, cosa che è più importante, sotto
l’aspetto
sostanziale. La διάγνωσις τῶν ὑποκειμένων di cui si parla alla
fine del riferimento
non è estranea al pensiero di Speusippo, se si pensa
che questi era ideatore di
tutta una vasta enciclopedia dei realia (gli
Ὅμοια) distinti fra
di loro dai due principi della ὁμοιότης e della δια-
φορά, i principi che Speusippo
considerava validi a ordinare il mondo
dei sensibili19; a fissare il numero e i
caratteri e le proprietà di questi,
— 134 —
non è strano che si considerasse valida una
collaborazione fra il senso
che percepisce e la ragione che opera l’atto della
διαίρεσις. Non è pere-
grino nemmeno il ricorso al parallelo dell’armonia, e della
distinzione del-
l’armonico dal disarmonico: in cui dobbiamo vedere qualcosa di più
che
un semplice accostamento, ma piuttosto un’analogia che ha radici pro-
fonde.
È noto come Speusippo avesse sostituito, nella gerarchia dell’es-
sere, le idee con
i numeri, enti primi e modelli di razionalità: e l’armonia
è numero; collaborare con
la ragione, significa educare la sensazione al
ritmo numerico. Filolao aveva già
detto che il λογισμός che disciplina
la conoscenza ha le sue radici nel numero
(Stob. ecl.
ι, p. 16 W. = 44
Β 11 D.-K.); e si sa che Speusippo amava
rifarsi a Filolao nella sua tratta-
tistica sui numeri, sì che il brano del Περί τῶν
πυθαγορικῶν ἀριθμῶν
speusippeo, resoci dallo Ps. Giamblico, si trova talvolta
inserito, per i
richiami a Filolao, fra i frammenti di questo autore20. A un
platonico
pitagorizzante di questa fatta la τέχνη del musico poteva a buon
diritto
offrire un esempio di disciplina della conoscenza sensibile.
Un buon nucleo di autenticità, nel rivestimento in linguaggio ulte-
riore, è dunque
riconoscibile nello Speusippo di Sesto. Per quanto poi
riguarda Senocrate, il
discorso si fa più problematico. Si prendono le
mosse di lontano per arrivare alla
dottrina senocratea della δόξα: e cioè
dalla distinzione metafisico-cosmologica che
Senocrate avrebbe fatto del
reale, in tre zone di realtà, una noetica, al di sopra e
al di fuori del
cielo (è, ancora, lo ὑπερουράνιος τόπος del
Fedro), una intermedia, che
si identifica col cielo stesso, una sensibile,
quella degli elementi in cui
viviamo. Si tratta di τρεῖς οὐσίαι (147), tre forme
distinte dell’essere,
a proposito delle quali si pongono tre κριτήρια: ἐπιστήμη,
δόξα, αἴσθησις.
Lo schema del κριτήριον è dunque anche qui osservato: regola e
norma
di giudizio per stabilire la verità sarebbe di volta in volta la
conoscenza
intellettiva, quella doxastica, la pura sensazione. Anche in questo
rife-
rimento, quindi, vediamo la teoria del discepolo platonico costretta
nel
— 135 —
cliché ellenistico. Ma anche qui è da cercarsi il nucleo
originario senocrateo,
che certo non manca.
Sembra che Senocrate non considerasse da identificarsi δόξα e αἴσθη-
σις. Per
Platone il concetto di conoscenza doxastica abbracciava, come sap-
piamo, i due
livelli della pura rappresentazione (εἰκασία) e della conoscenza
sensibile
accertata, relativamente vera (πίστις, ὀρθὴ δόξα). Non così per
Senocrate; il quale,
riprendendo pur sempre un discorso platonico circa la
δόξα come tipo di conoscenza
intermedia e mista, fatta di verità e di non
verità21, sembra intendesse assegnare ai due tipi di conoscenza,
l’opinione
e la sensazione pura, due diverse sfere: all’opinione, che è mista, una
οὐσία
μικτή come quella del cielo visibile, sede del divino ma pur sempre
attingi-
bile ai sensi, mentre la οὐσια inferiore, quella della pura realtà
sensibile,
inautentica, spuria, perché rimanda a un modello ideale, sarebbe stato
il
campo di esplicazione della sensazione e l’oggetto del conoscere
sensibile
(148-149). In tal caso, lasciando da parte lo schema estraneo del
“criterio”,
Senocrate avrebbe pur sempre segnato una distinzione dell’opinare
dal
semplice conoscere con i sensi, isolato un ambito preciso; e conferito
all’o-
pinione la natura superiore di una semi-verità e di una semi-intellegibilità.
La testimonianza va presa con segno dubitativo; e pure non è da re-
spingersi. E
interessante, anzitutto, come essa ci ricordi che nell’orizzonte
filosofico di
Senocrate esisteva pur sempre un “luogo” metafisico superiore
al cosmo, contro la
tendenziosa testimonianza di Teofrasto (metaph.
6 a 23 = fr. 26
Heinze, 100 Isnardi Parente), secondo la quale Senocrate
πάντα περιτίθησι περὶ τὸν
κόσμον; al contrario principi e numeri (o idee-
— 136 —
numero) dovevano essere considerati
da Senocrate, come del resto è lo-
gico che sia, entità trascendenti rispetto al
cosmo22. Sotto questo aspet-
to, c’è da ritenere la
testimonianza relativa a Senocrate perfettamente
legittimata. Tuttavia rimane
singolare, e non può essere esente da margini
di dubbio, il fatto che una realtà
come quella celeste possa essere stata
considerata da Senocrate oggetto della
conoscenza doxastica. Non sotto
l’aspetto “formale” (per usare termini
aristotelici), certo: perché la retta
astronomia è conoscenza delle perfette leggi
matematiche che governano
il cielo. Ma difficilmente anche sotto l’aspetto
materiale. Se Platone aveva
parlato, nella Repubblica, dei
ποικίλματα del cielo, dei suoi aspetti ester-
ni, come di una realtà soggetta, come
ogni altra, alla conoscenza dei sensi,
l’Accademia aveva fatto dei passi avanti su
una diversa strada. Una fonte
tarda, ma fededegna per la ricca tradizione che per
tramiti confluisce ad
essa, Simplicio, ci avverte che il cielo fisico aveva per
Senocrate la dignità
di un essere composto sulla base di un elemento privilegiato:
al cielo egli
avrebbe assegnato quella forma ultima, il dodecaedro, che Platone
non
aveva posto a base di alcun corpo elementare nel Timeo,
facendo del quin-
to corpo regolare il presupposto della quinta natura, lo αἰθήρ (in Aristot.
de cael., p. 12 Heiberg = fr. 53 H., 265 I.P.)23. Supporre che un simi-
le elemento possa esser oggetto di δόξα
significa perlomeno rivedere pro-
fondamente la teoria della δόξα, modificandone la
natura, distaccandola
dalla sensazione comune con i suoi aspetti illusori.
Qualunque sia stata storicamente la posizione di Senocrate in merito,
ed è tema su
cui non possiamo che avanzare illazioni, c’è qualcosa che,
independentemente da ciò,
emerge chiaramente dal nostro passo: ed è
la volontà da un lato di affermare l’unità
di Speusippo e Senocrate con
— 137 —
la teoria di Platone, nel crescere e nell’affermarsi di
una valutazione di
αἴσθησις e δόξα di cui si ravvisa in Platone la matrice;
dall’altro la propria
volontà di riallacciarsi all’Accademia antica e di ritrovare,
in essa, anche
forzando i toni, la radice dei propri atteggiamenti. Si tratta di un
recu-
pero e di un ritorno; qualcosa di diverso dal tema dell’unità della vita
e
della storia dell’Accademia, già affacciatosi con Filone di Larissa e desti-
nato a
riproporsi nella storia ulteriore del platonismo. Per affermare l’uni-
tà
dell’Accademia, anche nella sua fase aporetico-scetticizzante, bisognava
sostenere
la tesi dell’aporeticità di Platone. Questa era però la tesi di
Filone, non di
Antioco24. Ad Antioco ci
porta invece il nostro brano,
per l’espressa volontà di ricupero (in una certa
chiave) dei temi dell’Acca-
demia antica, al di là della fase scetticizzante
intermedia.
PH iii 54 e 115; adv. log. ii 7 e 258-259
È appena ovvio osservare come la Stoa abbia attribuito la maggior
importanza alla
contrapposizione σώματα-ἀσώματα, e come ἀσώματον
sia diventato nel suo ambito un terminus technicus ben preciso. Né questo
termine né quello di
σωματοειδής mancano nel vocabolario platonico; e
Aristotele dal canto suo conosce
bene la contrapposizione fra quanti pro-
fessano la teoria di ἀρχαὶ ἀσώματοι e
quanti invece pongono ἀρχαὶ
σωματικαί (de an. A 2. 404 b 31 sg.).
Ma sono gli Stoici ad aver collegato
la contrapposizione a quella più generale tra
ὄντα e οὐκ ὄντα; con sfuma-
ture peraltro, e distinguendo (la testimonianza riguarda
soprattutto Cri-
sippo25) il
semplice ὑφίστασθαι, “essere” ο “sussistere”, dall’essere nel
— 138 —
senso di “esistere”,
ὑπάρχειν, che si addice solo a ciò che è corporeo.
Conseguenza di ciò era stato,
nella stessa Stoa, la necessità di porre, come
genere supremo ο punto focale di
tutti i generi, non lo ὄν stesso, che
si riferisce solo alla parte realmente
esistente dell’essere, ma un più gene-
rico τί, capace di abbracciare insieme corpi
e realtà incorporee ο semi-
realtà26. Tutto questo appartiene alla storia della scuola
stoica; se se ne
fa qui richiamo, è per mostrare come il linguaggio platonico venga
talvolta
semplificato ο travisato da Sesto negli schemi di un linguaggio
divenuto
diffuso, ma che ha nella Stoa il suo luogo di origine.
Uno dei passi più significativi in proposito è PH
iii 54. Il discorso
che ivi si fa su Platone è non a caso
inserito in una polemica che riguarda
il concetto stoico di λεκτόν. Come anche
altrove (adv. log.
ii 409 sgg.)
Sesto denuncia certe conseguenze illogiche
presenti nella logica stoica:
quei filosofi hanno affermato che incorporeo è, per
definizione, ciò ch’è
incapace di agire e di subire; ma hanno poi identificato un
certo tipo
di incorporeo con forme logiche, il λεκτόν ο significato, l’ἀξίωμα
(lo
stesso λεκτόν è, nella sua espressione più ridotta, un ἀξίωμα ἐλλιπές),
l’
ἀπόδειξις; ora, queste forme logiche esercitano un’azione sulla nostra
mente; per
esempio l’ ἀπόδειξις è fatta proprio per produrre in noi un
certo convincimento. Non
ci interessano qui le risposte più ο meno abili
che già gli Stoici hanno dato a tali
argomentazioni ben anteriori a Sesto
(forse carneadee?)27; ci interessa il discorso che Sesto introduce quasi
— 139 —
per
inciso su Platone, chiamato in causa come quello che γιγνόμενα μέν,
ὄντα δὲ οὐδέποτε
καλεῖ τὰ σώματα: non può conferir loro il nome di ὄντα
in quanto non può indicarli
come un τόδε, un “questo” definito. Per non
dire della più nota contrapposizione
οὐσία-γένεσις, il riferimento immediato
di quest’ultimo passo è al
Timeo (49 d-ε), ove si dice che le forme del
sensi-
bile, aventi il loro luogo nella χώρα, non si caratterizzano mai come
un
τοῦτο, ma sempre e solo come un τοιοῦτο (in termini aristotelici, forzando
il
concetto, si direbbe non mai come sostanze, ma come qualità, ο
accidenti
qualitativi). Ricalcando la contrapposizione stoica ὄντα-οὐκ ὄντα,
Sesto
introduce qui Platone per attribuirgli una teoria che sta, ovviamente,
al-
l’opposto di quella stoica, presupposta tuttavia nella formulazione linguistica.
Ancor più significativo è PH
iii 115, ove è ripreso il tema aristotelico
della discepolanza
e derivazione (pur mediata) di Platone da Eraclito. I
termini iniziali della
contrapposizione ricalcano quelli del passo preceden-
temente visto: i corpi sono
μηδὲ ὄντα [...] γιγνόμενα μᾶλλον. Ma subito
dopo è attribuita a Platone la teoria
della ὕλη ῥευστή; se gli occhi dell’ese-
geta sono volti al
Timeo, nel Timeo è ovviamente introvabile tale teoria
per il
semplice fatto che il concetto filosofico di ὕλη è postplatonico28.
In un primo momento si parla della
materia, in Platone, come οὐσία
ῥευστή (tale che nel suo scorrere subisce continue
differenziazioni, ag-
giunte, diminuzioni, variazioni), per passare poi ad
attribuire a Eraclito,
— 140 —
dal quale Platone la avrebbe desunta, la teorìa della
εὐκινησία τῆς
ἡμετέρας ὕλης.
Ciò che è corporeo è in un processo di continua ῥύσις, nessun corpo
è stabile; la
materia è simile a un fiume in perpetuo scorrere (116). È,
questa, un’immagine che
non verrà mai abbandonata nel corso del medio-
platonismo, e Numenio di lì a poco la
rappresenterà con particolare forza,
parlando di fluire, ma di un fluire
disordinato, scomposto e ribelle, in
base alla sua concezione negativa della
materia29. La teoria della
ὕλη
ῥευστή è già diventata, quando Sesto scrive, un τόπος: il passo delle Hy-
potyposeis trova il suo esatto parallelo in un altro passo
sestano, adv. log.
ii 6-7: anche lì
abbiamo un saggio di contaminazione fra il comparire
fuggevole (φαντάζεσθαι) del Timeo e il concetto aristotelico di ὕλη. Ma
qui non si parla più
di ἀσώματα e γιγνόμενα quanto, piuttosto, di
ἀσώματα e αἰσθητά; cioè il discorso
tende a spostarsi sul piano gnoseolo-
gico, o, perlomeno, a un concetto di tipo
oggettivistico-ontologico vedia-
mo contrapposto un concetto relativo piuttosto
all’ordine del conoscere.
Non seguiremo Sesto nei suoi paralleli con Democrito, che avrebbe,
come Platone,
negato valore alla conoscenza sensibile, non sussistendo
alcuna sensazione che sia
φύσει30, ο con Asclepiade, figura che
presenta
di per sé un grosso e forse insolubile problema, sempre nota come è
attra-
verso accostamenti, e del tipo più diverso, se si pensa che, mentre
qui
viene associata con Platone, l’accostamento più frequente è quello
con
Epicuro31. Ciò che interessa è la diversità fra l’immagine di
Platone
— 141 —
suggerita dal sopra esaminato brano di adv. log.
ι 141-144 e quella che
emerge dal brano che stiamo esaminando.
Là — per il tramite dei “Plato-
nici” cui Sesto si riferiva esplicitamente —
sembrava venisse accordata
da Platone non solo una certa validità e “verità” al
mondo sensibile,
ma la conoscenza di esso venisse considerata anche un “criterio”,
cioè
un giudizio di verità. Ecco che qui invece Platone (come, per altre
ra-
gioni, Democrito) viene considerato un filosofo che ἀναιρεῖ τὴν
αἴσθησιν
(adv. log.
ii 56). Sesto si riferisce qui ad una fonte che, dati i
confronti,
potremmo ragionevolmente ritenere dossografica, probabilmente
influen-
zata (abbiamo visto in passi paralleli il concetto di ὕλη ῥευστή) dal
plato-
nismo della prima età imperiale. Si delinea, attraverso il suo
riferimento,
un’immagine di Platone come il filosofo che avrebbe considerato i
sensi-
bili in divenire “non essenti” in virtù della loro perenne instabilità
e
avrebbe coerentemente negato ogni validità conoscitiva agli oggetti
della
conoscenza sensibile (αἰσθητά); un Platone sostenitore di una teoria
della
ὕλη come perennemente instabile e quindi non suscettibile della
stessa
predicazione di essere. Siamo, come si vede, ben lontani dal Platone
stoi-
cheggiante della testimonianza che risale all’ellenismo e,
probabilmente,
ad Antioco di Ascalona, da noi sopra esaminata.
A rincalzo, già fin da ora, si può tentare un primo esame del passo
adv. phys.
ii 258-259, sul quale meglio ci soffermeremo più oltre.
Citando
(e vedremo meglio come) Platone, Sesto afferma che le idee sono
ἀσώματα
primi per eccellenza rispetto a tutta la realtà ulteriore; esse
προϋφίστανται ai
corpi; è da notarsi come sia preferita qui l’espressione
προϋφιστάναι, valida nel
linguaggio stoico, per gli incorporei, e non il
προϋπάρχειν più adatto a indicare
l’esistenza (o, qui, pre-esistenza) dei
corpi. In questa prospettiva, rovesciando la
prospettiva stoica, incorporeo
deve essere ciò che fonda l’essenza della corporeità:
l’incorporeo è ἀρχή
rispetto a ciò che è materia e corpo. Non diversamente ragionava
Plutarco
— 142 —
(quaest. plat. iii 1001 ε-f) parlando della καταβίβασις dalle idee fino ai
sensibili
per mezzo di successivi atti di “aggiunta”, πρόσθεσις: quella
della quantità che dà
luogo ai numeri, dell’estensione (μέγεθος)32 per le
grandezze, della profondità per i
solidi. Anche qui le idee sono concepite
come ἀρχαί in quanto assolutamente semplici
nella loro incorporeità, giac-
ché la corporeità richiede tutto un complesso sistema
di aggiunte poste-
riori che vanno via via sommandosi. Ma Sesto, vedremo, non si
limita
a questo, e la sua citazione di Platone in questo luogo offre
difficoltà
che l’interpretazione di Plutarco non presentava.
E l’anima? Non è anche l’anima, in Platone, un ἀσώματον? Sesto
sa questo, e la
giustificazione che ne dà in un altro passo
(adv. log.
i 119)
ha un sapore senocrateo: l’anima non può non essere un
ἀσώματον in
quanto accoglie e recepisce in sé altri άσώματα (le idee, i numeri,
i
πέρατα τῶν σωμάτων ο limiti incorporei delle figure geometriche).
Di
Senocrate, Nemesio ci dice che una delle prove da questi addotte
per
l’incorporeità assoluta dell’anima era che essa si “nutre” di realtà
incor-
poree, per esempio la scienza; e possiamo discutere su quel
“nutrirsi”,
che ha riscontri vari e problematici; ma è certo che i due argomenti
hanno
una certa somiglianza ed è probabile che la prova (comunque essa fosse
poi
formulata) risalga all’Accademia antica33. Era proprio
l’Accademia
antica, soprattutto senocratea, la fucina delle “prove” a βοήθεια
del
verbo platonico; e, attraverso tramiti, questi schemi sono arrivati al
tardo
mondo antico.
— 143 —
adv. phys. ι 364; ii 258-260, 276-277
Nel primo di questi passi, i 364, troviamo un’affermazione
inequivo-
cabile: per Platone le idee sono le ἀρχαί del reale. Anche qui Sesto
non
cita, ma parla con apparenza di obiettività, derivata ο da lettura
diretta,
ο da esposizione dossografica che si ritiene comunque riferimento
fedele.
Sesto afferma che quanti sostengono l’esistenza di incorporei
ritengono
ἄρχειν (trovarsi all’estremo del reale, dare inizio al reale) entità
diverse:
Platone le idee; i Pitagorici i numeri; i matematici i “limiti dei
corpi”,
si intende dei corpi geometrici. La forma in cui è espressa la
convinzione
che per Platone le idee siano al livello più alto del reale e ne
costituiscano
il vero fondamento è di carattere medioplatonico: tutti gli autori del
me-
dioplatonismo (Plutarco, Albino, Calcidio) sono concordi nel conferire
alle
idee questo ruolo34. Il passo è in proposito assai chiaro, né è
lecito
aggirarlo con espedienti giustificativi, anche se non è in accordo, e
stiamo
per vederlo, con altre testimonianze sestane.
In adv. phys.
ii 258-260, abbiamo una testimonianza su Platone che
Sesto
riferisce nell’ambito di un lungo brano in cui attinge ad autori neo-
pitagorici:
una fonte a noi ignota, cui Sesto si riferisce con le espressioni
di πυθαγορικοί,
πυθαγορικῶν παίδες, Πυθαγόρας; perfino οἱ ἀπὸ τῆς
Ἰταλίας πυθαγορικοί, ove l’accenno
all’Italia non ci aiuta affatto all’iden-
tificazione, trattandosi di una pura nota
tradizionale di διαδοχή. Qui Pla-
tone, come già vedemmo, è indicato come l’autore
che ha conferito alle
idee, incorporee, dignità di priorità ontologica
(προϋφιστάναι) rispetto ai
corpi. Non per questo esse possono dirsi principi in
assoluto: ogni idea
— 144 —
è infatti una, presa di per se stessa nella sua singolarità, ma
κατὰ σύλλη-
ψιν — vista come una complessità interiormente organizzata — è
molte-
plice, in quanto comprendente altre idee in sé, ed è quindi a sua
volta
dipendente dal numero. Occorre perciò riconoscere che i numeri
sono
trascendenti (ἐπαναβεβηκότες) rispetto alle idee stesse, e che sono essi
le
vere ἀρχαί del tutto.
La citazione fa parte di un contesto in cui si afferma che i “Pitagori-
ci”
ritengono che la corporeità rimandi come a suo principio non ad una
corporeità
ulteriore, ma a una natura ο realtà di carattere incorporeo:
tale realtà, essi la
individuano nel numero, che ritengono superiore alle
idee (249 sgg.). Il nostro
problema è anzitutto quello di stabilire i limiti
della citazione di Platone;
stabilire cioè se Platone sia qui semplicemente
chiamato in causa come un filosofo
che ha affermato, con la dottrina
delle idee, la priorità dell’ ἀσώματον sui σώματα
(258), oppure se riguar-
di ancora Platone la successiva affermazione che le idee
sono sì intellegibi-
li e incorporee, ma non di necessità semplici, e che la loro
interna com-
plessità rimanda ancora, ad un più alto livello, al numero (259-260).
La prima ipotesi sembrerebbe più plausibile se il nostro intento fosse
quello di
mettere in accordo Sesto con se stesso, dal momento che altrove
lo abbiamo visto
affermare senza riserve il carattere di ἀρχαί proprio delle
idee platoniche. Ma
quanto abbiamo visto finora ci porta già verso la
conclusione che l’immagine di
Platone appare di volta in volta in Sesto
assai diversa a seconda della fonte. Per
giunta, qui ci troviamo di fronte
non ad un riferimento di Platone cui Sesto intenda
conferire carattere
di (relativa) obiettività: ci troviamo di fronte al Platone dei
“Pitagorici”,
ad una citazione che fa, a tutta evidenza, parte di un contesto
specifico.
Da una simile preoccupazione dobbiamo quindi sgombrarci
preliminar-
mente la strada.
Ci si deve dunque chiedere piuttosto se esistano già nella tradizione
interpretativa
che si riferisce a Platone i due motivi che caratterizzano
la citazione: la teoria
del carattere composito dell’idea e quella della supe-
riorità dei numeri alle idee
nella gerarchia ontologica. Entrambe di fatto
esistono, e rendono almeno plausibile
l’attribuzione a Platone, da parte
dei “Pitagorici”, dell’una e dell’altra
posizione.
L’idea come realtà composita non è del dialogo platonico (ove le idee
sono
dichiarate semplici, Phaed. 78 c, esenti da mistione,
Phil. 59 c; né
— 145 —
a ciò è di ostacolo il
Sofista, ove συμπλοκή e κοινωνία fra le idee indicano
compatibilità
logico-ontologica e non composizione ο commistione35);
appartiene però a certa esegesi
vetero-accademica che si trovava a dover
conciliare la teoria delle idee come
ἑνάδες o μονάδες (Phil. 15
a-b) con
la teoria della διαίρεσις, che sembrava portare la divisione nel
cuore delle
idee stesse. Espediente per ottenere ciò era vedere l’idea nella forma
del-
l’unità composita propria del numero, e a ciò aiutava la volontà di
conci-
liazione fra platonismo e pitagorismo che è un’altra caratteristica
dell’Ac-
cademia antica. Rimane legata al nome di Senocrate non solo la
teoria
delle idee-numeri, ma quella dell’idea come εἶδος συγκείμενον εἰδῶν,
se-
condo un’espressione che troviamo in Temistio e che questi dice desunta
dal
Περὶ φύσεως di Senocrate stesso36. Non
mancano quindi appigli per
— 146 —
l’attribuzione a Platone di una simile concezione
dell’idea, e l’origine di
questa esegesi è certamente da cercarsi nell’Accademia
antica, e partico-
larmente in quei circoli di essa che alla dottrina delle idee si
mantene-
vano, almeno programmaticamente, fedeli.
C’è anche, nell’esegesi di Platone, la posizione di chi riteneva le idee
non
“numeri” e aventi esse stesse la struttura una e composita del nu-
mero, ma
subordinate ai numeri nella scala gerarchica dell’essere. Questa
posizione è in
contrasto con il riferimento di Aristotele, sia in metaph.
A 5.
987 a, sia nel Περὶ τἀγαθοῦ a noi noto attraverso Alessandro di
Afrodisia; anche qui
(Alex. metaph., p. 56, 3 Hayduck = fr. 2 Ross) le
idee sono
identificate con i numeri, non subordinate ad essi. Dove invece
troviamo la
subordinazione delle idee ai numeri è nella tradizione esege-
tica raccolta da
Teofrasto (metaph. 6 b 11): là si dice che le idee si
“rial-
laccerebbero”, ἀνάπτοιεν, ai numeri come ad entità trascendenti
rispetto
ad esse. Questa esegesi può essere stata particolarmente gradita alla
fonte
neopitagorica cui Sesto attinge37.
Possiamo dunque ritenere che la citazione di Platone giunga fino a
260, e che
l’affermazione secondo cui le idee dipendono dai numeri ap-
partenga ancora
all’esegesi che di Platone danno i “Pitagorici”, anziché
esser polemica di questi
contro Platone. La citazione tuttavia non oltre-
passa questi limiti. Sesto continua
a riferire, da 261 in poi, una tratta-
zione del rapporto fra principi, numeri e
realtà corporea che appartiene
al pitagorismo ellenistico e che, pur portando in sé
detriti abbondanti,
per così dire, di tradizione platonizzante ο vetero-accademica,
si differen-
zia anche sensibilmente in più punti da quanto noi conosciamo di
questa
attraverso i riferimenti aristotelici.
— 147 —
Un tratto che distingue il riferimento di Sesto dalla testimonianza
aristotelica del
Περὶ τἀγαθοῦ è il modo di tracciare il processo dei gradi
dell’essere. Sesto infatti
(260-261) parla di un risalire dai corpi fisici ai
corpi geometrici solidi, poi alle
superfici, alle linee, ai numeri; sono saltati
i punti, che invece compaiono nella
enumerazione del Περὶ τἀγαθοῦ
(Alex. Metaph., p. 55, 4 sgg.
Hayduck: quelli che i matematici, dice il
testo di Alessandro, chiamano σημεία)38. Molto diversamente,
Sesto —
ο i “Pitagorici” cui si riferisce — passano dalle linee ai numeri,
usando
significativamente l’espressione προεπινοεῖσθαι anziché quella, più
co-
mune, di προϋφιστάναi, ragionando cioè in termini di pensabilità
prima
ancora che di esistenza. Anche questo potrebbe esser segno della
lontana
sopravvivenza di una teoria, all’origine, senocratea: Senocrate, è
noto,
dava origine alle dimensioni e grandezze spaziali non dal punto
(che,
privo di estensione, è una non-grandezza) ma dalla linea
indivisibile,
prima nell’ordine delle grandezze. Non conta molto che nello stesso
con-
testo, poco più oltre, Sesto parli della linea come ἀγομένη ἀπὸ σημείου
ἐπὶ
σημεῖον; con ἀγομένη egli indica chiaramente una operazione, ed è
— 148 —
molto più
significativo il fatto che egli non introduca i σημεία nella gerar-
chia
ontologica39.
Passando a parlare dei numeri, Sesto afferma che ogni numero ricade
per sua natura
sotto il principio dell’unità; e unità non è qui intesa nel
senso di idea (come,
vedremo, lo sarà più oltre), ma nel senso di principio:
μονάς e δυάς sono i principi
che sono fondamento dei numeri, e, attra-
verso i numeri, di tutto il reale, giacché
i numeri a loro volta sono fonda-
mento della realtà tutta (261-262). Il discorso
sarà ripreso più oltre, in
276-277, e là certi residui platonizzanti, più sensibili
nella prima parte,
verranno del tutto meno.
Principi, dunque, sono uno/monade e dualità indefinita. Se tutte le
realtà in sé
considerate sono singole, in quanto partecipano in primo luogo
della μονάς, questa
dà poi luogo col suo raddoppiamento alla δυάς; δυάς
indefinita, per partecipazione
(μετοχή) alla quale si producono poi le diadi
ο dualità definite. E un singolare
ragionamento, che va seguito nei suoi
risvolti specifici. La δυάς appare “principio”
in senso alquanto improprio,
in quanto raddoppiamento della μονάς, che la produce;
su questo dovre-
mo fra poco tornare. Ci interessa in primo luogo vedere come il
concetto
di “partecipazione” sia recuperato da Platone in un senso
assolutamente
improprio. La diade-principio è un processo, un fatto di ordine
dinamico,
la sua essenza sta nel raddoppiarsi della monade. E ben altro è
parlare,
come fa Platone nel Fedone (96 A sgg.) della
partecipazione del due empi-
rico ο del due numero alla dualità come idea del due:
la μετοχή ο μέθεξις
è l’atto specifico di quel δέχεσθαι, ricevere in sé, la forma
razionale che
è propria del sensibile in quanto imita la perfezione della forma
stessa;
e questa, ben lungi dall’essere “indefinita”, è sommamente definita
come
ogni forma ο idea rispetto al sensibile. Il termine e lo schema della
“parte-
cipazione” sono dunque assai scorrettamente estrapolati dal
linguaggio
— 149 —
platonico. Quando più oltre Sesto torna a parlare dei principi,
questo
residuo appare superato: non si parla più di partecipazione ma solo
di
“derivazione”: i “Pitagorici” dicono che dalla monade deriva ο
nasce
(γίγνεται) l’unità numerica e la singola individualità delle cose, come
dalla
diade la dualità e la molteplicità (276).
La diade dunque nasce dalla monade per raddoppiamento; il testo
ha un parallelo in
PH
iii 254, ove l’espressione è ancora più chiara,
κατ'
ἐπισύνθεσιν. La dualità non nasce da un modello, ma da un’operazione;
e qui
Sesto e la sua fonte usano una frase che troviamo per la prima
volta nel Περὶ
τἀγαθοῦ di Aristotele secondo il riferimento di Alessandro,
δὶς γὰρ ἓν δύο (Alex. Metaph., ρ. 57, 10 Η.). Ma Alessandro non ne parla
solo
riferendosi al Περὶ τἀγαθοῦ, che dovrebbe riportare dottrina plato-
nica non passata
nel dialogo scritto: ne parla anche altrove, là ove Aristo-
tele non intende affatto
riferirsi a Platone, ma solamente ai Pitagorici:
anche nel perduto Περὶ τῶν
πυθαγορείων Aristotele parlava della diade
come raddoppiamento della monade: ἔλεγον
δὲ καὶ κίνησιν αὐτὴν καὶ
ἐπίθεσιν (Alex. metaph., ρ. 39, 16-17 Η.
= fr. 13, ρ. 139 Ross). E del
resto anche nel Περὶ τἀγαθοῦ, secondo Alessandro,
Aristotele avrebbe
parlato «dei Pitagorici e di Platone»
(metaph., p. 55, 21 H. = fr. 2, p. 113
Ross)40. Si tratta
quindi di materiale pitagorico assai antico, che non
— 150 —
potremmo certo attribuire a
Platone come sua dottrina propria e specifica:
sul concetto di diade possiamo
tutt’al più ipotizzare che si facessero
nell’Accademia intorno a Platone esercizi di
analisi matematizzante, poi
divenuti schemi fissi e τόποι tramandati nella
tradizione pitagorica più
tardiva.
Di questa tradizione pitagorica di età ellenistica abbiamo qualche te-
stimonianza
significativa, che ci mostra come il dualismo dei principi con-
tenesse in sé un più
che tendenziale monismo. I “Pitagorici” della testi-
monianza di Alessandro
Poliistore in Diogene Laerzio, viii 25, presentano
tale
monismo in forma assai accentuata: essi dicono che la monade è causa
(αἴτιον) della
diade; e in ciò non possiamo vedere altro che uno sviluppo
della teoria che fa la
diade derivata da raddoppiamento (ἐπίθεσις, ἐ-
πισύνθεσις): la monade addizionandosi
a se stessa “causa” la diade. Ancor
più singolarmente, riferendo dottrina
pitagorica, Filone Alessandrino (in
un passo eclettizzante del De
opificio Dei, 49, p. 16 Cohn) parla di un
prodursi della diade indefinita
per atto di ρύσις, scorrimento, della mo-
nade; pur con una certa confusione fra
ontologia e geometria, giacché
l’immagine è presa dalla μονάς/punto che “scorre” a
formare la linea,
anch’egli si riferisce comunque a Pitagorici che consideravano la
δυάς
qualcosa di già secondario e derivato41.
— 151 —
Sesto attinge ad una fonte che conserva qualche ricordo della tradi-
zione più
antica attestata dal Περὶ τἀγαθοῦ, ma che se ne differenzia
notevolmente. La cosa è
particolarmente avvertibile nel modo in cui i
“Pitagorici” si figurano il problema
della generazione dei numeri in base
all’uno e alla δυάς che ne sono principi.
Alessandro, seguendo Aristotele,
affermava che dall’uno e dalla diade si originano i
numeri ma solo quelli
pari, che richiedono la diade come forza raddoppiante; non a
caso, egli
dice, Aristotele ha detto
(metaph. A 5. 987 a), ἔξω τῶν πρώτων (interpre-
tando τῶν
πρώτων nel senso di τῶν περιττῶν, i dispari). Nessuno dei
numeri dispari è
considerato da Alessandro prodotto dalla δυάς, ma solo
dall’aggiunta progressiva
dell’uno, con esclusione della diade, giacché essi
sono μονάδι μόνῃ μετρούμενοι; di
essi si può dire μὴ γεννᾶσθαι ὑπὸ τῆς
δυάδος (Alex. metaph., p.
57, 4-25 Η.). Al contrario, i “Pitagorici” di
Sesto vedono tutti i numeri prodursi
dall’uno e dalla diade: i pari per
semplice raddoppiamento, i dispari per
raddoppiamento più unità che si
aggiunge; la triade è formata dal raddoppiamento
dell’uno più un uno
ulteriore, il cinque dal raddoppiamento del due più aggiunta di
un’unità,
e così via (277), E la teoria che percorre ellenismo e
medioplatonismo
nella sua forma più generica, e che è raccolta anche da Plutarco, la
cui
sensibilità per la matematica non va più in là delle esigenze di
interpreta-
zione del Timeo42. È
un τόπος, e come tale in Sesto dobbiamo conside-
rarlo. La fonte di Sesto dovrebbe a
buon diritto figurare in una raccolta
di testi del pitagorismo tardo-ellenistico, e
solo un improprio e forzato
riconducimento di essa al Περὶ τἀγαθοῦ aristotelico e al
suo preteso riferi-
mento di dottrina orale platonica le ha impedito di assumere il
più mode-
sto luogo che le è dovuto.
— 152 —
La tematica del rapporto principi-numeri è lasciata da parte in ii
262
per essere poi ripresa, con qualche variante, in 276-277. I “Pitagorici”
di
Sesto non si interessano solo alla derivazione dei numeri, ma ambisco-
no dare un
quadro di tutta la derivazione del reale. La loro divisione
dei generi dell’essere è
assai complessa, la più complessa ed elaborata fra
gli esempi che ce ne sono
tramandati.
I “Pitagorici” dividono il reale in tre parti: ci sono realtà κατὰ
διαφοράν, κατ'
ἐναντίωσιν, πρός τι. Per κατὰ διαφοράν si intende qui
tutto ciò che è in sé e per
sé, e ha la sua identità differenziata; sono
realtà che si conoscono πολύτως, in
forma indipendente. Le realtà κα-
τ' ἐναντίωσιν sono i contrari ο opposti; mentre
per semplici
πρός τι si
intendono quelle forme di realtà che derivano il loro essere solo
dalla
σχέσις
ο posizione reciproca, per cui, eliminandosi l’una, anche l’altra
si elimina
(essi sono in rapporto di συνύπαρξις e συνaνaίρεσις). Mentre
gli opposti si
escludono e si eliminano a vicenda, senza possibilità di me-
diazione, i relativi ο
correlativi si implicano vicendevolmente (non c’è
destra senza sinistra né metà
senza doppio). Essi hanno anche un termine
medio, che non sussiste fra gli opposti:
non c’è un medio fra diritto e
ricurvo, fra morte e vita, ma c’è un medio — l’uguale
— fra il più grande
e il più piccolo. Per indicare il relativo, Sesto si vale
talvolta (268) della
formulazione stoica πρός τί πως ἔχον anziché del πρὸς τι della
tradizione
accademico-peripatetica; segno, una volta di più, della diffusione del
lin-
guaggio stoico nella filosofia di età imperiale43. Allo stesso modo, c’è
una oscillazione nella sua definizione degli
esseri che sono “per sé”: quan-
do (269) egli riprende il discorso intorno ad essi,
sostituisce alla deno-
minazione κατὰ διαφοράν quella, più autenticamente
accademica, di καθ'
ἑαυτά.
I tre generi di cui si è parlato dipendono a loro volta da forme supe-
riori
(ἐπάνω). I “Pitagorici” pongono come forma superiore rispetto ai
— 153 —
καθ' ἑαυτά ο κατὰ
διαροράν l’uno, in quanto si tratta di singole realtà
unitarie, definite, a sé
stanti. Le opposizioni si pongono invece sotto la
coppia ἴσον-ἄνισον:
nell’opposizione vita/morte, quiete/moto, buono/cat-
tivo uno dei membri, quello
positivo, si pone sotto l’uguale, l’altro, il
suo contrapposto, negativo, sotto il
disuguale. Essi possono anche dirsi
l’uno secondo natura, l’altro contro natura
(272): non si tratta quindi
di realtà equipollenti, né il bene è in funzione del
male, ma conserva,
a prescindere dall’opposizione, la sua autonomia positiva. Del
tutto in
funzione l’uno dell’altro sono invece i relativi che, per questa loro
incom-
pletezza, si pongono sotto il segno dell’indefinito. Essi sono
indefiniti
perché il concetto e l’esserci dell’uno richiama necessariamente quello
del-
l’altro, e anche perché vi è in essi un rapporto di più/meno,
eccesso/di-
fetto (270-273). Il genere loro immediatamente superiore è la dualità
in-
definita (274-275).
Questo complesso schema triadico, che comporta anche la presenza,
fra le forme del
reale e i principi, di una coppia di valori intermedi (l’u-
guale/diseguale,
rapportantisi rispettivamente all’uno e alla diade indefi-
nita) è la forma più
elaborata di divisione che noi conosciamo nella filoso-
fia antica, e rappresenta
uno stadio assai avanzato nella storia del pro-
blema. Sarà opportuno richiamarne
alcuni significativi precedenti.
a) Una divisione molto elementare è quella delle cosiddette
Divisio-
nes aristoteleae, operetta che correva ancora nel tardo mondo
antico, sì
che Diogene Laerzio ha potuto introdurla nelle sue Vite dei
filosofi. Nelle
Divisiones, che riportano materiale
accademico44, vengono contrapposti
i καθ' αὑτά (come quelli che non hanno
bisogno, per la loro spiegazione,
di ricorso a ulteriori concetti) ai relativi,
πρός
τι, i quali invece ἐν τῇ
ἡρμενείᾳ necessitano del ricorso al concetto di
un’altra realtà (Diog. Laert.
iii 109). È già implicito in
questo lo scivolamento da relativo a indefinito,
quello cui si opporrà
Aristotele, categ. 6 b 20 sgg., sostenendo che vi
sono
— 154 —
relativi che ammettono il più e il meno e che possono dirsi
indefiniti,
mentre altri (il doppio e la metà, ad esempio) non lo ammettono.
b) Altra divisione assai elementare, almeno così come ci è riferita,
sembra essere
quella di Senocrate. Partendo dalla divisione “trasversale”
già fatta da Platone, soph. 255 c, Senocrate obiettava ad Aristotele
che
la moltitudine delle categorie da lui poste è inutile (Simpl. in
categ., p.
63, 21 sgg. = fr. 12 H., 99 I.P.) e che la divisione in esseri
per sé/esseri
relativi ad altro basta ad esaurire il reale. Non possiamo negare in
assoluto
che Senocrate non compisse poi nell’ambito dei πρός τι successive
artico-
lazioni: Simplicio abbandona qui bruscamente la teoria senocratea
per
fare un parallelo, che forse è alquanto improprio, con la posizione
soste-
nuta da Andronico45.
c) Molto simile a quella di Senocrate, ma più complessa, è la divi-
sione che va
sotto il nome di Ermodoro. Anch’egli ponendosi sulla scia
di Platone nel Sofista, proponeva una divisione “orizzontale” ο
trasversale
della realtà in esseri per sé-esseri relativi ad altro. Ma nell’ambito
di
questi ultimi (πρὸς ἕτερα) tracciava poi una ulteriore divisione, quella
in
ἐναντιώσεις od opposizioni e relativi puri ο correlativi; una divi-
sione rimasta
fondamentale per tutta la tradizione che in qualche modo
si richiama al pitagorismo
ο al platonismo (Simpl. in Aristot. phys.,
p. 248,
2 sgg. Diels = fr. 7 I.P.). Tra i secondi poi, con procedimento
tipica-
mente dicotomico alla maniera platonica46, egli tracciava la divisione
— 155 —
ulteriore in ὡρισμένα e
ἀόριστα, e dobbiamo pensare che in ciò non si
discostasse da quanto sostenuto dallo
stesso Aristotele: relativi “definiti”
ο “delimitati” sono quelli matematici,
comportanti misura, “indefiniti”
gli altri. La divisione di Ermodoro è quella che
più da vicino si riporta
al metodo diairetico/dicotomico di Platone e intende porlo
in pratica.
d) Nella testimonianza di Alessandro sul Περὶ τἀγαθοῦ di Aristotele
si parla di due
principi, monade e diade, che possono anche dirsi uguale
e diseguale, la monade per
l’uguaglianza immobile con se stessa, la diade
perché, in quanto diade, consta di un
meno (l’uno) e di un più (la dualità),
quindi è in se stessa diseguale (Alex. metaph., p. 56, 17 H. = fr. 2 Ross,
p. 114: ἐν δuσὶ γὰρ ἀνισότης,
μεγάλῳ τε καὶ μικρῷ). E in metaph.
Ν 1.1087 b 4 sgg., elencando
le varie denominazioni che i Platonici dàn-
no al secondo principio, si allude anche
a chi identificava il secondo
principio con lo ἄνισον; il che potrebbe anche
riferirsi a Ermodoro,
per il quale (cfr. ancora Simpl. in phys.,
p. 248, 8 D. = fr. 7 I.P.) il
più/meno si traduce poi in ἄνισον ἀνίσου. Va tuttavia
notato che lo stesso
Ermodoro si spingeva oltre, fino a negare la stessa realtà di
un secondo
principio, con la definizione di questo
(ibid., p. 248, 14) in termini
di οὐκ ὄn, il che equivale a
togliergli funzione vera e propria di principio.
Aristotele, inoltre, sempre nel
Περὶ τἀγαθοῦ (Alex. metaph., p. 56, 14
H.) avrebbe parlato di una
dipendenza dai principi, uno e diade, delle
realtà che sono “per sé” e degli
ἀντικείμενα; parola singolare, perché
è da Aristotele altrove sempre usata nel senso
di “opposti”; qui essa forse
ha una valenza più larga, e tende a indicare ogni
coppia di πρὸς ἕτερα,
alla maniera di Ermodoro: cioè ἐναντιώσεις e πρός τι. Cogliamo
quindi
un nucleo di indubbia provenienza accademica che trova un riscontro
par-
ziale nel passo di Sesto; ma certamente solo parziale, perché Sesto
attri-
buisce ai suoi “Pitagorici” una struttura triadica (uno/coppia
ἴσον-ἄνισον/
— 156 —
diade) assai più complessa e che porta le tracce di tutta una
elaborazione
ulteriore. In questa gerarchia la coppia ἴσον-ἄνισον costituisce un
momen-
to intermedio: ἴσον e ἄνισον non equivalgono ai principi, ma
dipendono
dai principi, ai quali rimandano. Del resto anche a questo proposito
la
testimonianza di Aristotele attraverso Alessandro è tutt’altro che esente
da
contraddizioni e ambiguità: basti vedere come in un’opera parallela,
il Περὶ ἰδεῶν
(Alex. metaph., p. 83, 25 sgg. H. = fr. 3 Ross, p.
124),
relativo sia considerato non il diseguale, ma lo stesso uguale, sì che
si
rimprovera ai “sostenitori delle idee” di aver posto, parlando di
αὐτόισον,
“uguale in sé”, una idea di relativo, contro lo stesso assunto che
nega
l’esistenza di idee di relazioni47.
e) Non possiamo trascurare una interessante prosecuzione di questa
divisione in
esseri per sé/esseri relativi in ambito stoico: Stoici ignoti,
che abbiamo qualche
ragione di identificare con la cerchia di Antipatro
di Tarso48,
lasciavano da parte la divisione quadripartita (crisippea) dei
generi dell’essere
per tornare ad una divisione più vicina a quella accade-
mica (Simpl.
in Aristot. categ., p. 165, 32 sgg. Kalbfleisch = S.V.F.
ii 403).
Essi dividevano la realtà in καθ' αὑτά e
πρός
τι, identificando poi fra
i relativi forme di relativi differenziati (κατὰ
διαφοράν) e forme di relativi
puri ο correlativi, cui non inerisce differenziazione,
e che vengono all’es-
sere solo in virtù della reciproca σχέσις. Con ciò davano
evidentemente
— 157 —
al termine πρός τι un significato larghissimo, abbracciante
opposizioni
qualificate e correlativi puri, non qualificati (πρός τί πως ἔχοντα):
un
uso di relativo contro il quale avrebbe più tardi polemizzato Plotino (enn.
vi 3, 3, 32 e 3, 21, 1, 5 sgg.),
ricordando che contro quest’uso eccessiva-
mente “comprensivo”, περιεκτικόν, vale la
più sobria e corretta conce-
zione del relativo come ciò che esiste solo in virtù
del rapporto di
relazione, e non, più ampiamente, tutto ciò che in qualche modo
si
riferisce ad altro. Va notato che nella divisione di questi Stoici tardivi
si
è peraltro perduta la primitiva connessione posta dagli Accademici
fra forme
dell’essere e principi, in quanto per gli Stoici i principi sono
immanenti al reale.
f) I “Pitagorici” di Sesto continuano a dipendere dall’antico si-
stema delle
συστοιχίαι, anche se il termine non compare più nel nostro
brano. Cosi, come per gli
antichi sostenitori della divisione in due serie
di opposti, ch’è tipica del
pitagorismo preplatonico (Aristot. metaph. A
5. 986 a), le realtà
si dividono pur sempre, anche per questi Pitagorici
tardivi, in due serie, l’una
positiva, l’altra negativa: la prima serie si
richiama all’uno e all’uguale, la
seconda alla diade e al diseguale49.
Certo, la fonte di Sesto è andata assai oltre
rispetto alla più semplice,
e al confronto alquanto rozza, divisione delle
opposizioni che ha il suo
inizio con la coppia πέρας-ἄπειρον, principi fondamentali
del numero;
ed è ricca di sopravvenuti elementi vetero-accademici, in base ai
quali
è stato creato un sistema gerarchico complesso, ignoto al
pitagorismo
preplatonico. E se l’autore di questa divisione lavora su elementi
anti-
chi, non potremmo certo far risalire la struttura di tutto questo
com-
plesso edificio a origini remote senza grave arbitrio e senza alcun
fon-
damento di prova.
— 158 —
adv. phys. ii 280-283; adv. geom. 18-28
Il riferimento dalla fonte pitagorica ha termine con 279; nei paragrafi
seguenti il
discorso di Sesto si sposta sul piano delle teorie geometriche,
e Sesto avanza
considerazioni sue proprie circa i personaggi di cui finora
ha parlato, ponendoli a
confronto con altri Pitagorici di diversa forma-
zione. Gli uni, quelli di cui si è
parlato finora (il τῶν προτέρων di 282
allude a questo e non certo ad una priorità
cronologica) sono Pitagorici
“dualisti”, che fanno discendere la realtà da due
principi. Ma vi sono
altri Pitagorici “monisti”, che deducono tutto da un solo
principio; prin-
cipio che poi viene a coincidere con una forma ο realtà geometrica
quale
il punto. Monisti sono infatti considerati da Sesto quei matematici
pitago-
rici che sostengono la teoria della ῥύσις, della derivazione cioè di
ogni
forma geometrico-spaziale, quindi secondariamente anche delle forme
fisi-
che, dal punto, per via di scorrimento ο flusso (282). Questa posizione
è
stata altrove
(adv. geom. 18-21) descritta e analizzata da Sesto con
puro
riferimento alla scienza geometrica; mentre qui essa assume una
rilevanza
di tipo ontologico.
I Pitagorici “dualisti” sono anche quelli che ritengono che il punto
abbia in sé il
λόγος, la “ragione”, dell’unità, come la linea quello della
dualità, la superficie
quello della triade, il solido quello della tetrade. Me-
rita di essere notato che
(280) il concetto di corpo solido riceve quasi
una immediata traduzione in quello di
πυραμοειδές; e noi sappiamo che,
se il Timeo considerava il
tetraedro, ο piramide, come il primo e il più
semplice dei solidi regolari, v’era
nella tradizione pitagorico-platonica, ο
platonico-pitagorizzante, chi andava anche
più in là, sostenendo essere
il cosmo formato di corpi piramidali (Aristot. de cael. Γ 5-6. 304 a-b);
sì che ci si potrebbe chiedere se i
“Pitagorici” di Sesto non portino una
traccia della presenza di questa speciale
geometria cosmica50. Ma, al di
— 159 —
là di questa supposizione, interessa soprattutto notare
che i Pitagorici
di cui qui si parla (come anche in adv. arithm.
4-5, sotto un altro
profilo, e come in PH
iii 115 sgg.) assegnano alle grandezze un determi-
nato λόγος
che costituisce per ciascuna di esse la sua ragion d’essere;
discorso che, con
mutato vocabolario, ci porta comunque assai vicino
alla teoria del
Fedone circa l’idea del numero come ragione e causa
di ogni numero e di ogni
realtà numerabile. Vedremo del resto come,
più oltre, Sesto passi a usare
espressioni platoniche, non parlando più
di λόγος ma di ἰδέα, e come il Fedone si riveli poi l’aperto bersaglio
della polemica.
Contrapposti ai Platonici pitagorizzanti, che parlano di λόγοι delle
grandezze e
fanno derivare la realtà spaziale dai due principi dell’uno
e della diade, vi sono
altri rappresentanti di scuola pitagorica, secondo
i quali il punto (σημεῖον) è
sufficiente a generare tutta la realtà, spa-
ziale e fisica, di per sé, senza
necessità delia diade come secondo princi-
pio: il punto è da questi concepito come
un principio dinamico che
nel suo scorrimento (σημεῖον ῥυέν) forma la linea; per il
successivo scor-
rimento ο scivolamento di questa si forma il piano ο superficie;
quando
la superficie compie anch’essa la sua ῥύσις in profondità, si forma
il
solido geometrico, fondamento di tutti i corpi fisici. Tutto ciò avviene
ἀπὸ
σημείου ἑνός: i numeri come tali sono quindi esclusi dalla genera-
zione del tutto,
e la realtà ha una genesi puramente geometrico-cinetica.
Sesto non fa in proposito attribuzioni precise; il suo intento in questa
sede è
annotare la presenza di una diversa teoria pitagorica rispetto a
quella finora
descritta. In adv. geom. 28 troviamo però una citazione,
quella
di Eratostene, presentato come uno dei sostenitori della teoria.
Ma Eratostene non è
un pitagorico, e la teoria è molto più antica; la
conosceva già Aristotele, che ne
fa citazione nel De anima (A 4. 409 a 3,
κινηθεῖσα στιγμὴ γραμμὴν
ποιεῖ). E quindi una teoria matematica ante-
riore ad Aristotele stesso, ed
Eratostene può tutt’al più esserne conside-
rato un continuatore; possiamo pensare
che il Πλατωνικός di Eratostene
sia la fonte diretta del passo dell’Adversus geometras51.
— 160 —
C’è tuttavia un punto di contatto fra Eratostene e una cerchia pita-
gorica, almeno
se ammettiamo l’autenticità dell’epigramma che conclude
la (spuria) lettera a
Tolomeo III resaci da Eutocio52: Eratostene direb-
be di
avere riveduto e corretto i δυσμήχανα ἔργα architei, perfezionando-
li e
adattandoli ai loro usi. E in realtà Archita continua a rimanere l’auto-
re cui più
verosimilmente la teoria della ῥύσις può essere attribuita53.
Essa non può appartenere all’ambiente
dell’Accademia antica. Si può
escludere subito l’attribuzione a Senocrate, il quale
riteneva il punto non
una dimensione ο una grandezza reale, ma una astrazione dei
geometri:
la geometria spaziale comincia, per Senocrate, dalla linea indivisibile,
pri-
ma grandezza, come già sopra si è avuto occasione di ricordare. Ma si
può
anche, credo, escludere l’attribuzione della teoria a Speusippo. Proclo
ci dice che
per Speusippo ogni movimento è escluso dalla vera essenza
degli enti matematici, e
interessa solo la loro costruzione empirica
(in
Eucl. elem.
ι, p. 77, 7 sgg. Friedlein = fr. 46 L., 36 I.P., 72 Tarán):
è
per questo che i θεωρήματα sono da considerarsi superiori ai προβλήματα,
che
implicano κίνησις, mentre i numeri, nella loro vera essenza, sono da
concepirsi come
modelli immobili. Per di più Speusippo si mostra altrove
(nel brano del Περὶ
πυθαγορικῶν ἀριθμῶν resoci dallo pseudo-Giamblico,
fr. 4 L., 122 I.P., 28 T.)
sostenitore di una teoria della genesi delle gran-
dezze che nulla ha a che fare con
quella dinamica della ῥύσις: è la teoria
(statica) dei πέρατα, secondo la quale ogni
dimensione ο grandezza è limi-
te (πέρας) della successiva, e ne è al tempo stesso
anche inizio (ἀρχή)54.
— 161 —
Il modo poi in cui nello stesso brano, seguitando, Speusippo indica in
quattro tipi
di tetraedro ο piramide il fondamento geometrico del reale
ci porta vicino non ai
Pitagorici “monisti” di Sesto, ma ai dualisti e plato-
nizzanti, cui questi
attribuisce per l’appunto la teoria del λόγος delle
grandezze, dell’entità numerica
che sta loro a fondamento e che confe-
risce loro razionalità.
Se in qualche autore anteriore ad Aristotele possiamo cogliere, pur
nella povertà
delle testimonianze, qualche traccia di teoria della genesi
dinamica delle figure
geometriche, è esattamente in Archita. In questo
autore l’attenzione ai processi
fisici si accompagnava strettamente allo
studio delle forme geometriche: contro la
stereometria dei poliedri, quella
di Teeteto cui ancora si attenne strettamente
Platone, Archita privilegiava
nella sua ricerca non le figure angolari, ma quelle a
superficie circolare
e curva; e sembra aver posto una relazione fra questo tipo di
figure e
la natura fisica dei corpi dicendo (ps. Aristot.
problem. 915 a 25 sgg. = 47 A
23 a D.-K.) che le forme naturali sono circolari:
così i rami di una pianta,
così gli arti di un uomo e di un animale55. Le figure che egli predili-
geva, coni e cilindri, si formano
per rotazione, un altro processo dinamico
non certo identificantesi con quello della
ῥύσις, ma che può considerarsi
una prosecuzione e uno sviluppo di questa. Se Archita
fu anche insigne
matematico, elaboratore dell’armonica, non dimenticava di porre a
base
della complessità di rapporti numerici che questa comporta un fatto
di
ordine fisico e dinamico, l’impulso che viene dalla percossa (πληγή),
origine e
quasi στοιχεῖον del suono, che poi secondariamente si articola
in numeri. L’armonia,
per Filolao già prima e poi per Archita, faceva
— 162 —
anche parte del mondo fisico,
applicandosi a realtà come l’anima ο come
l’universo56.
La relazione che Sesto dà della teoria delia ῥύσις nell’Adversus
phy-
sicos tende, come già si è notato, a spostare la teorìa sul piano
ontologico.
Elementi più interessanti per la sua storia in ambito matematico può
però
ancora offrirci il testo dell’Adversus geometras. Qui
(20-21) ci possiamo
fare un’idea dello stadio avanzato di questa teoria, ove non
mancavano
tentativi di conciliazione e di superamento della contrapposizione
origina-
ria. Quegli stessi matematici, avverte Sesto, che fanno derivare le
gran-
dezze da un processo dinamico di flussione, poi, ὑπογράφοντες
(“trascri-
vendo”, “traducendo in altre espressioni”) fanno il punto πέρας
della
linea, la linea πέρας delle superfici e così via. Dobbiamo leggere in
ciò
pura polemica, e dare a ὑπογράφοντες un significato negativo, di
accusa,
come di chi rimproveri i matematici di usare espressioni diverse e
poten-
zialmente contrastanti? Se guardiano poco più oltre a quanto Sesto
dice
di Eratostene, saremmo piuttosto da ciò indotti a pensare che egli alluda
a
una volontà, da parte dei “matematici”, di sanare l’opposizione fra
teoria statica e
teoria dinamica della genesi delle figure. Che Sesto poi
trovi esaurienti le
giustificazioni dai matematici offerte, è altro discorso;
l’importante per noi è, in
questa sede, ciò che può trasparire attraverso
la sua testimonianza.
Ora, a proposito di Eratostene, Sesto afferma che questi non accet-
tava la
definizione del punto data dal pitagorismo più antico ed accolta
da Aristotele in
termini spaziali, e nemmeno la teoria del punto come
misura ο unità di misura della
linea, come elemento ο στοιχεῖον di questa:
il che sembrerebbe avvicinarlo a
posizioni senocratee. Tuttavia, dopo aver
affermato questo, Sesto lo fa sostenitore
della teoria che fa del punto
l’elemento generatore della linea: una teoria cioè che
comporta realismo
nell’interpretazione del punto e dinamismo geometrico (28). Come
sanare
la contraddizione? È probabile, è anzi del tutto plausibile che Sesto,
dal
suo punto di vista, non la considerasse sanabile. Ma da quanto egli ci
dice
possiamo pensare che Eratostene intendesse accettare alcuni mo-
menti della teoria
senocratea — il rifiuto del punto come grandezza spa-
— 163 —
ziale ο come misura — senza
per questo accettare le conseguenze che
da ciò Senocrate aveva tratte; al rifiuto
del punto come “grandezza
avente una posizione spaziale” egli opponeva la teoria del
punto quale
elemento dinamico generatore ο “punto di forza”; alla teoria statica
del
para-atomismo lineare che era stata propria di Senocrate egli opponeva
la
teoria del processo dinamico a partire da un primo elemento geometrico
unico. Sono
congetture, destinate a restare tali. Certo è che quando Era-
tostene intervenne nel
dibattito la teoria della ῥύσις aveva già tutta una
storia dietro di sé e le
posizioni erano già mature e avanzate, tanto da
prestarsi anche a qualche
eclettismo.
Ma, per tornare a Sesto, è importante vedere come egli, descritta
la posizione dei
Pitagorici platonizzanti, sapesse anche lucidamente con-
trapporre a questi altri
Pitagorici, di una scuola più antica, estranei ai
problemi della μετοχή e a quelli
della diade indefinita, e ancora riuscisse
a coglierne le caratteristiche
specifiche. Anche se il pitagorismo preplato-
nico costituiva ormai, nella
diffusione larghissima di motivi topici propri
di quello platonizzante, una
posizione arcaica, la sua fortuna almeno sul
piano della scienza geometrica non
doveva essere del tutto spenta ed
esaurita.
adv. phys. ii 284-301; 301-304
Dopo aver parlato dei matematici pitagorici e delle loro contrapposi-
zioni, Sesto
abborda la questione in proprio, polemizzando. Ma contro
chi è diretta questa
polemica? Non si direbbe che egli mostri interesse
a confutare la teoria dei
principi né quella della διαίρεσις, forse troppo
lontane dalle sue tematiche più
consuete. In un primo luogo egli si incen-
tra sul tema della partecipazione avendo
a riferimento un bersaglio in-
certo: potrebbero essere ancora i Pitagorici
platonizzanti, quelli che pon-
gono λόγοι delle grandezze, ο potrebbe essere già
Platone. A partire da
301, le cose si fanno chiarissime: lasciando da parte principi
e diade inde-
finita, Sesto polemizza contro il Fedone e la
teoria della dualità come
idea del due. E in questa polemica, capziosa come ogni
polemica filosofica
antica, egli finisce con lo scivolare dal concetto di dualità
come idea ο
forma a quello di dualità empirica. Vediamo più da vicino come
tutto
questo si svolga.
— 164 —
Ancora (ii 285) Sesto parla della μονάς come principio,
definendola
πρώτον καὶ στοιχεῖον, con tutta l’ambiguità che στοιχεῖον ha
nell’Accade-
mia antica e, di riflesso, nella Metafisica di
Aristotele; sì che potremmo
quasi credere Sesto ignaro, ο noncurante, delle
precisazioni portate circa
la distinzione dei due termini dalla speculazione
stoica57 o, in ambito
platonico,
da un Eudoro Alessandrino58. Ad una simile unità,
principio
piuttosto che elemento, ogni unità numerica ο ogni singola unità
empirica
deve richiamarsi per potersi dire veramente tale. In stretti termini,
siamo
ancora nell’ambito della teoria del λόγος come ragione del numero e
del
reale numerabile. Solo più oltre (293) compare un termine platonico
senza
ambiguità (ἰδέα τoῦ ἑνός). Un parallelo di questo passo è reperibile in
PH
iii 158-162, ove troviamo di nuovo questa singolare espressione; ana-
logo, nei due
passi, è tutto lo sviluppo della controversia.
Sia in adv. phys.
ii 285 sgg., sia in PH
iii 158 sgg., Sesto sostiene
una argomentazione fortemente
controversistica contro questa derivazio-
ne del due dalla diade, del numero
dall’idea del numero. In tal modo,
egli dice, noi abbiamo le due unità che
convergono a formare il due,
più la δυάς sopravveniente: ed ecco che non è il due a
prodursi, ma il
quattro (304). Con ciò egli mostra di voler intendere la dualità di
cui
parla Platone (di cui peraltro egli ha ben chiara la realtà ideale che
Platone
intende conferirle) alla stregua di una qualsiasi dualità empirica,
som-
mabile agli altri numeri: interpretazione volutamente capziosa, che
di
proposito ignora il pur altrove riconosciuto carattere trascendente
del-
l’idea del due.
II Fedone è un dialogo contro cui Sesto, d’altronde, ha già
polemizza-
to altrove. In adv. log.
ii 91-92, troviamo presa di mira la teoria
della
— 165 —
partecipazione, ο μετουσία, come qui la chiama Sesto usando un’altro
dei
numerosi appellativi platonici; e il riferimento è chiaramente a
Phaed.
103 c. Non ci interessa tanto la conclusione
capziosa del suo discorso
e il suo tentativo di dimostrare che, se la piccolezza non
è altro che parte-
cipazione al piccolo, il nove cui si aggiunga una unità numerica
non di-
verrà con ciò un numero più grande, venendo a partecipare di una
realtà
più piccola di quella del nove. Ci interessa la singolare confusione
che
notiamo in lui a proposito del concetto di partecipazione: questa, da
acco-
glimento in sé del riflesso della forma ideale, è qui scivolata al
significato
di πρόσθεσις ο πρόσληψις, come Sesto stesso si esprime: viene a
signifi-
care l’unirsi e l’aggiungersi di una unità alle altre che vengono così
a
“parteciparne”. Si tratta di due usi imparagonabili di “partecipare”, in
cui
la sottile logica di Sesto si invischia.
Per tornare a adv. phys.
ii 292, è interessante ancora notare come Se-
sto colga, di
scorcio e a suo modo, un altro problema platonico, che egli
attinge ancora al Fedone (104 d-105 a), ma
che, nel Fedone, è una sorta
di anticipo della συμπλοκή del Sofista: se si afferma che il tre è tale perché
partecipa della
τριάς, non lo si dovrà far partecipare anche della πε-
ριττότης, il tre essendo un
περιττός, dispari? E dove finisce allora la “sem-
plicità” delle idee? Ora, noi
abbiamo visto sopra, per bocca dei Pitagorici,
attribuita a Platone una concezione
dell’idea come realtà composita (il
κατὰ σύλληψιν di adv. phys.
ii 259). Come può Sesto scandalizzarsi della
contraddizione?
La realtà è che qui Sesto polemizza con la teoria del dia-
logo, e si trova davanti
ad un Platone diverso da quello della citazione
di poc’anzi. Nel
Fedone egli trova affermato che le idee sono nature sem-
plici, e appunto
per questo indissolubili ed eterne, sottratte (insieme con
l’anima, che loro
somiglia) a quella trasformazione che proviene ale realtà
composte dal loro
disgregarsi. E ha buon gioco nel contestare a Platone
che nello stesso
Fedone l’idea della triade si rivela poi duplice in se stessa,
formata dal
tre e dal dispari. Il problema della duplice partecipazione, che
Sesto non afferra
perché fraintende profondamente il concetto stesso di
partecipazione, si trasforma
per lui nella contraddittoria affermazione di
una complessità interna dell’idea,
contro le premesse poste dallo stesso
Platone, che le idee siano ἀρχαί assolutamente
semplici59.
— 166 —
Sesto, dunque, paria di Platone in più modi. Ha talvolta sott’occhio
il dialogo
scritto e ad esso fa chiaro riferimento. Ma altre volte ha sott’oc-
chio fonti
secondarie, che possono essere ο dossografiche (di puro e sche-
matico riferimento,
e di per di più portanti a confronto, com’è nell’uso
della dossografia, parallele
citazioni di altri filosofi) ο risalire ad una tradi-
zione esegetica. In
quest’ultimo caso rientrano le due citazioni di Platone,
diversissime, di adv. log.
ι 141-144 e adv. phys.
ιι 258-259. L'una è di
tradizione ellenistica e stoicheggiante,
e tende a proporre un Platone riva-
lutatore, a suo modo, della conoscenza
sensibile, momento imprescindi-
bile per la costruzione del pensiero ulteriore,
dotata di un suo “criterio”
consistente nella ἐνάργεια. L’altra è di tradizione
neopitagorica in senso
lato, e conserva ricordi dell’esegesi vetero-accademica
(particolarmente di
quella senocratea) ο antico-peripatetica (se si pensa agli echi
teofrastei)
passati poi attraverso la speculazione sui numeri cara al pitagorismo
tar-
divo: e tende a proporre un Platone metafisico che considera i
numeri
trascendenti alle idee e veri principi dell’essere. Due Platoni
incompati-
bili, ma garantiti l’uno e l’altro da due diverse tradizioni esegetiche.
Va notato come Sesto indichi sempre, a suo modo, quali siano i soste-
nitori di
queste diverse immagini di Platone, denunci sempre il suo rifarsi
a riferitori, a
tramiti, li chiami πλατωνικοί, ο πυθαγορικῶν παίδες, ο
altro; come egli abbia cura
di sottolineare che egli non sta parlando tanto
di Platone quanto del Platone di
“alcuni”, τινές, che possono ricevere,
in ordine all’esigenza di identificazione,
denominazioni differenti. E inte-
ressa anche, e ancor di più, vedere come, quando
intende polemizzare
direttamente con ciò ch’egli ritiene essere dottrina platonica,
sia il dialogo
— cioè quel Platone ch’egli può conoscere direttamente — il suo
bersaglio
polemico60. Non è del tutto
indifferente, la cosa, ai fini di una caratte-
rizzazione del metodo di Sesto;
perlomeno se lo si considera in relazione
— 167 —
a un soggetto “enigmatico” quale è
Platone. Egli stesso ha avvertito preli-
minarmente, in definitiva, come esistano
più Platoni a seconda delle varie
esegesi. Queste diverse tradizioni esegetiche,
egli le annota e le registra;
ma la sua vis polemica si esercita
poi specificamente contro argomenti
ben precisi, che egli attinge direttamente
all’opera dell’autore ch’è suo
bersaglio. Platone è per Sesto un autore
problematico, sul quale resta sem-
pre difficile pronunciarsi. Ma quando si devono
puntualmente controbat-
tere i suoi argomenti, Sesto mostra di saper bene dove
occorra andare
ad attingerli.
Hypotyposeis la distinzione netta di tre filosofie (dogmatica, accademica, scettica,
PH ι 3-4), tema poi sviluppato in PH ι 220, 226 e altrove. La teoria accademica (della
Accademia scetticizzante) relativa al conoscere viene poi sviluppata in adv. log. ι
166 sgg.
antica; cfr. l’interpretazione che Speusippo e Senocrate, contro Aristotele, davano
del dialogo (Aristot. de cael. A 10. 279 b = Speusippo, fr. 54 a Lang, 94 Isnardi
Parente, 61 a Taràn; Xenocr. fr. 54 Heinze, 153 I.P.). È il primo dialogo a propo-
sito del quale si faccia esegesi di Platone e quello di cui si continua a farne con
assoluta continuità (per le prime esegesi matematizzanti, di Teodoro di Soli, di Cran-
tore, sulle quali ci informa più tardi Plutarco, cfr. H. Dörrie, Der Platonismus in
der Antike, i: Die geschichtlichen Würzeln des Platonismus, Stuttgart-Bad Cannstatt
1987, pp. 344-9; e infra, nota 42). Quando Sesto polemizza contro il Timeo (PH
iii 189) parla di ἀνειδωλοποίησις, “costruzione di immagini” ο “rappresentazione per
immagini”, non certo di aporia ο di probabilità (il verbo ἀνειδωλοποιεi͂ν è usato
anche per i Pitagorici e la loro cosmologia a base numerica, PH iii 155).
τούς, perché mi sembra improbabile una polemica di Sesto in questo luogo contro
Enesidemo e Menodoto come richiederebbe l’accettazione di κατὰ τῶν. Anche l’indi-
viduazione di Menodoto peraltro non è sicurissima, pur essendo la più probabile (cfr.
lo Ἡρόδοτον del Pappenheim). Sesto sembra voler dire che, contro coloro che hanno
ritenuto Platone totalmente e puramente (ἐἰλικρινῶς) scettico, egli si attiene all’opi-
nione più nuancée di chi sa bene che cosa sia fare autentica professione di scetticismo.
Difficile l’individuazione del bersaglio polemico: chi ha ritenuto Platone un puro scet-
tico potrebbe essere Arcesilao, come potrebbe essere, nella sua volontà di afferma-
zione dell’unità dell’Accademia, Filone di Larissa (cfr. infra, nota 24).
fr. 12, fr. 9 Mette).
a c. di M. Isnardi Parente (“La Scuola di Platone” iii, collana di testi diretta da
M. Gigante) Napoli 1982, e alla mia nota di commento al fr. 1 H., 82 Ι.Ρ.
origine prima peripatetica (o aristotelica addirittura) della teoria; la forma con cui la
teoria è presentata (con attribuzione a Platone) favorisce la tesi dell’attendibilità del-
l’attribuzione di Sesto a Senocrate. E da notarsi che più tardi Cicerone, probabilmente
su base dossografica, farà meno sottili distinzioni, attribuendo la ratio triplex diret-
tamente a Platone stesso (acad. pr. 2, 19). Alquanto diversamente, nell’esaminare la ri-
presa della teoria in Zenone di Cizio, A. Graeser, Zenon von Kitium. Positionen und
Probleme, Berlin-New York 1975, p. 8, propende per questa seconda interpretazione.
detto e citato in Speusippo. Frammenti, ediz., trad. e comm. a c. di M. Isnardi Pa-
rente (“La Scuola di Platone” i) Napoli 1980, pp. 240-6; Senocrate-Ermodoro. Fram-
menti, cit., pp. 311-3. Ma cfr. anche, per il commento al fr. 75, L. Tarán, Speusippus
of Athens. A critical Study with a collection of the related Texts and Commentary, Lei-
den 1981, pp. 431-5. Una lettura unitaria di tutto 141-9, con attenzione al problema
delle fonti, fu già tentata a suo tempo da R. Hirzel, Untersuchungen zu Ciceros philo-
sophischen Dialogen, iii, Leipzig 1883 (rist. anast. 1964), Excurs I, pp. 493 sgg.; di
cui si dirà anche più oltre, cfr. infra, nota 12.
trale della gnoseologia, con la Stoa (Diog. Laert. vii 54 = S.V.F. ii 105) e parallela-
mente con il Kanon di Epicuro (Diog. Laert. χ 31 = fr. 35 Us., i 31 Arr.2). Sesto
ne fa larghissimo impiego ogni volta che si tratta di valutare una posizione gnoseolo-
gica, anche di tipo presocratico ο preplatonico (cfr. per Parmenide, adv. log. i 120;
per Anassagora, ibid. 105, 110; per Eraclito, ibid. 134, 139-140; in generale cfr. K.
Janáček, Index verborum (in calce a Sexti Empirici Opera, iii, Leipzig 1954), s.v.
κριτήριον. Si tratta di uno schema fisso di riferimento, dal quale ovviamente non
si può trarre alcuna indicazione relativa a singoli autori.
la terminologia e la teoria peripatetica. Ma la relazione con l’Accademia è certo ancor
più stretta e vicina. Cfr., anche per la citazione di numerosa letteratura critica, a
proposito della ἐνάργεια in Filone, J. Glucker, Antiochus and the Late Academy,
Göttingen 1978, pp. 71 sgg.
affini; del resto la citazione dell’Accademia antica è, in genere, precisa in Sesto (adv.
eth. 3, οἱ ἀπὸ τῆς ἀρχαίας Ἀκαδημίας). Α. Grilli, Sesto Empirico, ‘Adversus mathema-
ticos’ VII, 142-146, «La Parola del Passato», xxv (1970) pp. 407-16, in part. 409,
ha notato come l’espressione οἱ πλατωνικοί sia usata da Sesto solo in questo caso.
chungen cit., iii, pp. 493 sgg.) circa la possibile presenza di Posidonio; va notato che,
quando Hirzel scriveva, la tendenza all’attribuzione a Posidonio di larga parte della
letteratura tardo-ellenistica di provenienza ignota si trovava per l’appunto al suo ini-
zio. Il nostro brano proviene certo da un autore che guarda all’Accademia antica
come a modello e intende “riappropriarsene”; per questa tendenza in Antioco di
Ascalona cfr. ancora J. Glucker, Antiochus and Late Academy, cit., pp. 98 sgg.; H.
Tarrant, Scepticism or Platonism? The Philosophy of the Fourth Academy, Cambridge
1985, p. 136. Per l’analisi di altri termini tardo-ellenistici cfr. ancora A. Grilli, art.
cit., pp. 409 sgg. (si può rilevare in particolare il caso di ἀντίληψις, che in Plat.
Phaed. 87 a, Hipp. M. 287 a, Soph. 241 b, appare nel senso di “obiezione” e si trova
congiunto ad “aporia”, mentre assume poi il suo significato gnoseologico ellenistico
nella letteratura pseudo-platonica, cfr. Tim. Locr. 100 c).
ellenistico è un dato accertato; è probabilmente da anticipare la datazione assegnata
dagli editori (H. Diels e W. Schubart, Berlin 1905) all’anonimo Commentario al Tee-
teto, da essi considerato opera di avanzata età imperiale. Si attende la nuova edizione
nel Corpus dei papiri filosofici greci e latini di Firenze.
intesa a forzare la lettera e lo spirito della fonte accademica. E tuttavia, anche se
questa ipotesi può sembrare plausibile, il passo, nell’altra chiave di lettura, denota più
chiaramente la sua appartenenza ad Antioco nella contrapposizione alle oscillazioni
filoniane; i tratti stoicizzanti del pensiero di Antioco sono certo assai marcati; cfr. in
proposito W. Görler, Antiochos von Askalon über die “Alten” und über die Stoa, Beo-
bachtungen zu Cicero, ‘Academici post.‘ 1, 24-42, in Beiträge zur hellenistischen Literatur
und ihre Reception in Rom, hrsg. von Ρ. Steinmetz, Stuttgart 1990, pp. 123-39.
gus», Suppl. xxx (1931) pp. 15 sgg.; incline ad attribuire la priorità del termine a
Speusippo invece A. Grilli, Contributo alla storia di ΠΡΟΗΓΟΥΜΕΝΩΣ, in Studi
linguistici in onore di Vittore Pisani, Brescia 1969, pp. 409-99, in part. pp. 481 sgg.
Chi scrive propende a credere che il προηγουμένως di questo testo appartenga al lin-
guaggio più tardivo della fonte, una terminologia in questo caso peripatetico-
stoicheggiante, che del resto Sesto usa anche altrove; per la delimitazione del signifi-
cato cfr. M. Isnardi Parente, Speusippo in S. E. math. vii, 145-146, «La Parola del
Passato», xxiv (1969) pp. 203-14, e Speusippo. Frammenti, cit., pp. 242-3.
mando a Stoici antichi, a c. di M. Isnardi Parente, Torino 1989, p. 647 nota 165,
e p. 819 nota 244, per le osservazioni relative a questo uso in Antipatro di Tarso.
sulla categoria stoica della qualità probabilmente da riportarsi anch’esso ad Antipatro,
come già aveva supposto con verosimiglianza A. Schmekel, Die positive Philosophie
in ihrer geschichtlichen Entwicklung, i, Berlin 1938, pp. 625 sgg.
qualcuno con cui Diogene, secondo Filodemo, concorderebbe; questi è con ogni pro-
babilità Speusippo. Rimando ancora per ulteriori notizie a Stoici antichi, cit., p. 614
nota 41; cfr. di recente G. M. Rispoli, La “sensazione scientifica”, «Cronache Ercola-
nesi», xiii (1983) pp. 91-101.
e a L’Accademia antica. Interpretazioni recenti e problemi di metodo, «Rivista di Filolo-
gia e di Istruzione Classica», cxiv (1986) pp. 350-78, in part. p. 360 e nota 1;
non concordo infatti con l’interpretazione di C. A. Viano, La selva delle somiglianze,
Torino 1985, pp. 177, 191-2, secondo il quale nel campo del sensibile Speusippo
avrebbe ritenuto di non poter far altro che “andare a caccia” di esempi empirici.
Lo vieta anzitutto l’uso di θήρα (che ha un significato oggettivistico nel linguag-
gio platonico, cfr. Phaed. 66 c 2, Gorg. 500 d 1, ove si parla di θήρα τοῦ ὄντος e
di θήρα τοῦ ἀγαθοῦ) e inoltre l’esame stesso del testo degli Ὅμοια, ove compaiono
i due precisi termini di διαφορά e ὁμοιότης, viste, queste, come i due principi che
regolano la ricerca nel campo dei sensibili. Lo vieta anche la stessa dottrina della
ἐπιστημονικὴ αἴσθησις, facoltà che probabilmente Speusippo applicava proprio a que-
sto campo, relativo alla raccolta dei dati empirici, fatta secondo criteri di ordine
e scientificità.
kratiker, i, 44 a 13, pp. 400-2, e M. Timpanaro Cardini, I Pitagorici, Firenze 1962,
ii, pp. 126-37. Che il passo sia speusippeo è opinione anche di L. Tarán, Speusippus
of Athens cit., pp. 297-8. Ciò pur essendo poi la sua interpretazione del passo assai
diversa da quella data da chi scrive in Speusippo. Frammenti, cit., pp. 368-77.
nota per dovervi insistere. Per un tentativo di spiegazione del processo logico che
può aver portato Senocrate a questa concezione della δόξα cfr. Senocrate-Ermodoro.
Frammenti, cit., pp. 312-3 (a commento del fr. 83 = 5 H.). Si può aggiungere che
forse proprio nel Timeo Senocrate poteva trovare uno spunto per la distinzione di
δόξα da αἴσθησις, là ove Platone scrive δόξα μετ' αiσθήσεως ἀλόγου (Tim. 28 a); ma
in Platone si trattava di una sorta di perifrasi, che comunque può aver dato adito
nella scuola a sviluppi e forzature. Quanto al passo di Sesto e alla sua fonte diretta,
una cosa è certa: che l’influenza stoica non può qui esser chiamata in causa per spie-
gare la distorsione. La δόξα è del tutto esclusa dall’ambito dei criteri nella Stoa;
cfr. Diog. Laert. vii 54 = S.V.F. ii 105; lo stesso Sesto poco più oltre (adv. log.
i 151 = S.V.F. ii 90) dice che essi pongono la δόξα ἐν μόνοις τοῖς φαύλοις.
è stata seguita con eccessiva fiducia da alcuni interpreti (cfr. ad es. H. Dörrie, s.v.
Xenokrates, in RE ix A 2 (1967) coll. 1511-1528, in part. 1520). La testimonianza
di Sesto riequilibra la questione ed è sostenuta dalla testimonianza di Aristotele nella
Metafisica.
bio-dossografica) che Simplicio riporta, circa una teoria del quinto elemento-etere,
identificato col cielo, in Senocrate; teoria che sarebbe stata, secondo lo schema con-
sueto, attribuita a Platone, “ritrovandola”, per così dire, nella sua opera secondo
una certa lettura esegetica. Cfr. Senocrate-Ermodoro. Frammenti, cit., pp. 433-5.
tardi, del platonismo. Per le posizioni di Filone e Antioco cfr. ancora J. Glucker,
Antiochus cit., pp. 69 sgg., 82 sgg. Plutarco può esser citato purtroppo solo per il
titolo di un’opera perduta del catalogo di Lamprias, Che una è l’Accademia, mentre
ci resta per excerpta, tramite Eusebio, parte dell’opera numeniana Della secessione
degli Accademici da Platone (frr. 25 e sgg. Des Places).
S.V.F. ii 509). Il problema è posto a proposito del tempo, che esiste come presente
solo in quanto legato ad avvenimenti che sono concreti, fisici, corporei, mentre “sus-
siste” ο “è” (ὑφίσταται) come passato ο futuro. Ma, al di là del tempo, investe tutta
la complessa questione del rapporto corporeità-incorporei. In proposito P. Hadot,
Zur Vorgeschichte des Begriffs Existenz: ὑπάρχειν bei den Stoikern, «Archiv f. Begriffs-
geschichte», xiii (1969) pp. 115-27; V. Goldschmidt, Ὑπάρχειν et ὑφιστάναι dans
la philosophie stoïcienne, «Revue des Etudes Grecques», lxxxv (1972) pp. 331-44
(anche in Id., Ecrits de philosophie ancienne et moderne, i, Paris 1984, pp. 187-200);
A. Graeser, A propos ὑπάρχειν bei den Stoikern, «Archiv f. Begriffsgeschichte», xv
(1971) pp. 299-305.
p. 301, p. 359 Wallies; Sext. adv. math. ι 17 e PH ii 86; soprattutto Plotino con
la sua critica stringente, enn. vi 1, 25, 1 sgg. (S.V.F. ii 329, 330, 371, 373; K. Hül-
ser, F.D.S., fr. 718). Cfr. quanto citato in Stoici antichi, cit., p. 798 nota 221, cui
è da aggiungersi ora il penetrante articolo di J. Brunschwig, La théorie stoïcienne
du genre suprème et l’ontologie platonicienne, in Matter and Metaphysics. Fourth Sympo-
sium Hellenisticum, ed. by J. Barnes and M. Mignucci (“Elenchos” xiv) Napoli
1988.
l’Arnim in S.V.F., e che non aveva sufficientemente attirato la mia attenzione, com-
parirà ora in Appendix Stoicorum, di prossima pubblicazione in «Studi Classici e
Orientali» (1991). Sesto conosceva già non solo la critica fatta agli Stoici, ma anche
la risposta data da questi ai loro avversari: che cioè, mentre la conoscenza delle realtà
incorporee può dirsi una forma di conoscenza ἀπό, che viene da ciò che è esterno
e che produce su di noi un’azione causa/effetto, il convincimento, che deriva da una
dimostrazione, appartiene alla conoscenza ἐπί, “su”, “circa”, “in ordine a”, che non
implica causalità di tipo fisico. Ch’è una sorta di escamotage, senza valore probante,
ma di notevole interesse per la storia delle polemiche di cui si è intessuto il rapporto
fra Stoa e altre scuole, in particolare Accademia di mezzo e nuova.
pp. 277-84, riguardo al saggio di F. Decleva Caizzi, La “materia scorrevole”. Sulle
tracce di un dibattito perduto, in Matter and Metaphysics cit., pp. 425-70. Contra-
riamente alla Decleva, ritengo che l’Accademia antica non potesse “appropriarsi”
del concetto aristotelico di ὕλη, il che avrebbe comportato il rinnegamento della dot-
trina platonica del trascendente, in qualsiasi modo considerato (modelli ideali ο prin-
cipi); e che la formula, contaminazione di platonismo e aristotelismo, sia frutto di
una fase più tardiva.
termine specifico usato da Democrito è, com’è noto, quello di ἐτεῇ che troviamo
in Sesto stesso altrove, adv. log. i 135 (68 Β 9 D.-K.), ο in Gal. de medic. empir.,
ed. H. Schöne, Berlin 1901 (68 β 125 D.-K.). Sulla pretesa “negazione delle sensa-
zioni” da parte di Democrito si era formata assai presto nella sua scuola la posizione
scetticizzante e l’interpretazione scetticizzante della dottrina del maestro, che comun-
que anch’essa, come l’atteggiamento di Platone, non ha le caratteristiche dello scetti-
cismo agli occhi di Sesto.
teria scorrevole” cit., pp. 461-6; la nota 37 a p. 462 offre una sintetica ma esauriente
bibliografia, a cominciare dallo studio che a questa enigmatica figura di medico de-
dicò M. Wellmann, Asklepiades aus Bythinien voti einem beherrschenden Vorurteil
befreit, «Neue Jahr. der klass. Alt.», xl (1908) pp. 684-703. Per gli accostamenti
ad Epicuro, probabilmente fuorvianti (cfr., sempre da Galeno, i frr. 285, 293, 382,
373 Us.), mi sono espressa negativamente in Le obiezioni al ‘Fedone’ di Stratone di
Lampsaco e l’epistemologia del primo ellenismo, «Rivista di Filologia e di Istruzione
Classica», cv (1977) pp. 277-305, in part. 303 sgg. Forse ci portano più vicini alle
reali fonti di Asclepiade passi quale Eus. praep. evang. xiv 23, 4, ove vien compiuto
un accostamento con Eraclide Pontico, che avvicina Asclepiade, piuttosto, alla tradi-
zione platonico-peripatetica.
Plutarch’s Moralia, xiii 1, Cambridge-London 1976, p. 38 nota c, con esempi dallo
stesso Sesto (adv. log. i 73).
saggio attraverso la Stoa, non però necessariamente; per il passo cfr. Nemes. de nat.
hom. 30, P.G. xl, col. 541 = fr. 66 H., 203 I.P. (dubbi su di esso sono stati
recentemente sollevati da M. Morani, Nemesiana parva, «Orpheus», n.s. viii (1987)
pp. 144-8). Particolarmente accademico sembra lo schema della “prova” che, a
quanto evinciamo da Aristotele, era corrente nella scuola da Platone, a cominciare
dai λόγοι ο dalle ἀποδείξεις relative alle idee (cfr. De ideis, passim, e eth. eud. A
8.1218 a 14). Ma non può certo negarsi che tale schema sia stato poi adottato da
altre scuole. La teoria del carattere άσώματον dell’anima, in ogni caso, è tipica del
platonismo e ne rappresenta una costante.
κυριώταται ἀρχαί; e di ἀρχή come definizione dell’idea fa uso assai largo (soprattutto
nel dialogo citato, importante saggio dello stile compendiarono del medioplatonismo).
Per l’uso di ἀρχή in relazione alle idee cfr. fra i molti esempi possibili Alcin. (Al-
bino?) Didaskalikós, pp. 162,11; 163,10 Hermann; Calcid. in Plat. Tim., p. 330, 9
Waszink, ove l’idea è definita principalis species. Diverso il platonismo alessandrino,
più vicino alla tradizione neopitagorica, di cui si dirà più oltre; cfr. infra, nota 58.
Si può obiettare che nel Περὶ ἰδεῶν lo stesso Aristotele sembra aver affermato che
le idee sono ἀρχαί (Alex, metaph., p. 86, 8 Hayduck = fr. 4, p. 127 Ross); ma Ari-
stotele fa ciò solo per giungere alla conclusione che non a caso dottrina delle idee
e dottrina dei principi sono incompatibili fra loro, e che è necessario un atto di scelta
(ibid., p. 87, 20 sgg. Hayduck = p. 128 Ross).
S.Rosen, Plato’s ‘Sophist.’ The Drama of original and image, New Haven 1983, pp. 252-
3. Ma per le aporie insite in questi concetti del Sofista cfr. soprattutto di recente G.
Sasso, L’essere e le differenze. Sul ‘Sofista’ di Platone, Bologna 1991, per il concetto di
partecipazione pp. 85 sgg., 137 sgg., 163 sgg. L’analisi teoretica di Sasso aiuta a com-
prendere come “partecipazione” si intenda altrove nel dialogo platonico in senso unidi-
rezionale (i sensibili partecipano dell’idea, ma l’idea non partecipa certo di essi), mentre
il Sofista presenta un uso di μέθεξις e μετέχειν del tutto affine a quello di κοινωνία ο
συμπλοκή, in cui il rapporto è reciproco, e quindi si pone sotto un aspetto profonda-
mente diverso, assimilandosi a “comunanza”. Il che non vuol dire certo “mescolanza”,
nel senso di una intrinseca composizione, senso cui è stato poi piegato dall’esegesi ulte-
riore. Per i passi più significativi del Sofista cfr. 251 d-256 a, passim.
260 I.P.; analogamente ibid., p. 31, 1 sgg. H. = fr. 61 H., 261 I.P. Per la discussione
se Temistio abbia potuto o no leggere il passo nell’opera di Senocrate cfr. H. Cher-
niss, Aristotle’s Criticism of Plato and the Academy, Baltimore 1944, p. 399 nota 325,
e pp. 566 sgg.; di contro A.D. Saffrey, Le Περὶ φιλοσοφίας d’Aristote et la théorie
platonicienne des idées-nombres, Leiden 1955, p. 41 (replica di H.Cherniss, «Gno-
mon», xxxi (1960) pp. 41-2, poi in Selected Papers, ed. by L.Tarán, Leiden 1977,
pp. 428-9). La definizione, sia stata essa letta ο no — e quest’ultima ipotesi sembra a
chi scrive più probabile — nello stesso testo senocrateo, è importante e significativa
anche se Temistio parla dell’anima: egli dice che l’anima è numero per la sua stretta
somiglianza col numero ideale, e la definizione che segue (εἶδος συγκείμενον εἰδῶν)
si attaglia quindi a entrambi. Essa ha una rispondenza in Aristot. metaph. Β 3.
998 b 30 sgg. = fr. 122 Ι.Ρ.; cfr. anche ibid. Μ 7.1082 a 36. Per le ragioni che porta-
vano Senocrate a concepire l’idea come realtà composita rimando a M. Isnardi Pa-
rente, Studi sull’Accademia platonica antica, Firenze 1979, pp. 107 sgg.
p. 192 nota 112, già notava che qui, anziché parlare di una dipendenza di Sesto ο
della fonte da Aristotele e dal Περὶ τἀγαθοῦ, si può osservare che Aristotele viene
respinto in favore di Teofrasto. Che a Neopitagorici la soluzione teofrastea dovesse
apparire la più logica, non è del resto strano, data la posizione gerarchica più elevata
che i numeri assumono in essa. Per una posizione critica circa la discendenza del
passo dal Περὶ τἀγαθοῦ cfr. la recensione di G. Vlastos, «Gnomon», xxxv (1963)
pp. 641-55, in part. pp. 649-50, a H. J. Krämer, Arete bei Platon und Aristoteles,
Heidelberg 1959; E. de Strycker, L’enseignement oral et l’oeuvre écrite de Platon,
«Rev. Belge de Littérature Philologie Histoire anc.», xlv (1967) pp. 116-23, in
part. 120.
tele e il riferimento di Sesto è stata esaltata oltre misura a partire da P. Wilpert,
Neue Fragmente aus Περὶ τἀγαθοῦ, «Hermes», lxxvi (1941) pp. 225-50, che ha cre-
duto di riconoscere nel passo dell’Adversus physicos, a parte alcune intrusioni ellenisti-
che dovute al tramite, schietto materiale platonico, di dottrina orale. La tesi, su cui
già si erano espressi i dubbi di W. Jaeger, «Gnomon», xxiii (1951) pp. 246-52,
è stata poi fatta propria dagli autori della scuola di Tubinga, a partire dal citato
Arete bei Platon und Aristoteles del Krämer; ma cfr. K. Gaiser, Quellenkritische
Probleme der indirekten Platonüberlieferung, in Idee und Zahl. Studien zur platonischen
Philosophie, Heidelberg 1968, pp. 31-84, che ha una posizione di grande cautela in
relazione alle fonti, e il riconoscimento — nonostante che il Gaiser si attenga fonda-
mentalmente alla tesi della platonicità del passo — della presenza di una forte rimani-
polazione almeno terminologica da parte della fonte immediata di Sesto. Il carattere
ellenistico-dossografico del passo sestano è sottolineato anche da W. Theiler, Einheit
und unbegrenzte Zweiheit, von Platon bis Plotin, in Isonomia. Studien zur Gleichheitvor-
stellung im griechischen Denken, hrsg. von J. Mau-E. G. Schmidt, Berlin 1964, pp.
89-109. Un più preciso confronto su diversi punti qualificanti col Περὶ τἀγαθοῦ può
dimostrare come le somiglianze con questo riguardino motivi diventati di scuola nel
neopitagorismo platonizzante, e come permangano diversi punti di divergenza assai
netta che fanno pensare alla presenza di fonti diverse. Sull’attendibilità del Περὶ τἀ-
γαθοῦ come riferimento di Platone cfr. poi infra, nota 40.
Classica», cxiii (1985) pp. 455-64, in part. 463; obiezione ragionevole ma che non
mi sembra probante. Di quanto sia eclettica la fonte di Sesto (o sia lo stesso Sesto
a contaminarla con altre fonti) ci accorgiamo quando, alla ripresa dell’argomento,
in adv. phys. ii 278, vediamo affiorare nella enumerazione i punti, che all’inizio erano
stati messi da parte per tracciare una linea evolutiva delle grandezze geometrico-
spaziali dai numeri alla linea. Rimando per altre considerazioni a Senocrate-Ermodoro.
Frammenti, cit., pp. 347-50.
Platon, Nürnberg 1962, pp. 32 sgg., sottolineava la netta distinzione posta da Aristo-
tele fra il concetto unitario di ἄπειρον dei Pitagorici e quello “diadico” di Platone,
sulla base soprattutto di metaph. A 6. 987 b 25. Si apre però a questo proposito il
problema del Περὶ τῶν πυθαγορείων, ove il concetto di diade raddoppiante è attri-
buito da Aristotele ai Pitagorici. Sospettare allora dell’autenticità del Περὶ τῶν πυθα-
γορείων, e ritenere questo una delle tante contraffazioni ellenistiche, corrente in que-
sto caso non sotto il nome di un filosofo del pitagorismo antico, ma sotto quello
di Aristotele? Ciò è stato fatto; cfr. lo stesso W. Burkert, Weisheit cit., p. 27 nota
77; G. Roccaserra, Aristote et les Sept ‘Sophistes’: pour une relecture du fragment 5
Rose3, «Revue Philosophique», cvii (1982) pp. 321-38, in part. p. 332, rimprovera
al Ross il troppo largo inserimento dei frammenti di quest’opera nell’edizione oxo-
niense dei Fragmenta Selecta. Ma il fr. 13 Ross ricompare oggi come fr. 162 in O.
Gigon, Aristotelis Opera, iii, Berlin-New York 1987, col. 413 a, per il punto specifico
che ci interessa. E ri si chiede poi se sia lecito risuscitare l’Aristoteles pseudepigraphus
di V. Rose per il solo Περὶ τῶν πυθαγορείων (ο Πρὸς τοὺς πυθαγορείους, come prefe-
risce Gigon) e non per lo stesso Περὶ τἀγαθοῦ. Se non ci attentiamo a spingerci così
oltre, va comunque sfatato il carattere di “riferimento fedele” della presunta dottrina
orale platonica che da parte di una tradizione di studi troppo passiva si è lungamente
attribuito a quest’opera: per il riconoscimento del suo carattere di contrapposizione e
presa di posizione critica, con tutto ciò che a questo può conseguire, cfr. di recente J.
Brunschwig, EE I 8, 1218 a 15-32 et le ‘Perì tagathoû’, in Untersuchungen zur ‘Eude-
mischen Ethik’, “V Symposium Aristotelicum”, hrsg. von P. Moraux-D. Harlfinger,
Berlin 1971, pp. 197-224, in part. p. 220; G. Romeyer Dherbey, Les choses mêmes.
La pensée du réel chez Aristote, Lausanne 1983, p. 93. Il diaframma aristotelico fra il
pensiero di Platone e la nostra interpretazione non è in alcun caso eliminabile. Anche
se Alessandro (cfr. P. Moraux, Les listes anciennes des ouvrages d’Aristote, Louvain
1951, pp. 39, 325-6) ha avuto ancora direttamente sott’occhio il Περὶ τἀγαθοῦ, ciò dice
assai poco circa la fedeltà del medesimo al pensiero e alla lezione di Platone.
giste, iv, Paris 1954, pp. 19 sgg., W. Theiler, Einheit cit., p. 100 nota 2, ha accen-
nato alla possibile presenza di Eudoro Alessandrino nel nostro passo. Ciò è assai
poco certo se si pensa alla diversa configurazione che la dottrina dei principi ha già
in Eudoro, una struttura che prelude a quella del neopitagorismo più avanzato; se
guardiamo, almeno, alla testimonianza di Simpl. phys., p. 181, 7 sgg. Diels ( = fr.
3 Mazzarelli) Eudoro avrebbe posto non semplicemente la δυάς come derivata
dall’uno, ma una coppia ἔν/δυάς, ponendo cioè un uno superiore che è fuori dell’oppo-
sizione e un uno che è in posizione di ἐναντιότης nei rapporti della δυάς.
plat. quaest. 1002 a e altrove; in genere sull’esegesi plutarchea del Timeo sotto
l’aspetto matematico, che ha le sue radici nell’Accademia antica e nell’opera di Teo-
doro di Soli, probabilmente contemporaneo di Crantore (cfr. in proposito H. Dörrie,
Der Platonismus cit., i, pp. 344 sgg.), rimando a Plutarco e la matematica platonica,
in Plutarco e le scienze, Atti del IV Congresso Internazionale Plutarcheo, Genova
1992, pp. 121-45.
ii 453 = S.V.F. ii 404, ove Sesto riferisce a suo modo la tesi stoica dell’incorporeità
(cioè non reale esistenza, ὕπαρξις) del relativo, usando indifferentemente πρός τι e
πρός τί πως ἔχον; mentre la tesi stoica si riferisce con evidenza a questa seconda
forma, il πώς ἔχον essendo invece una modificazione del corporeo.
evidenza dal titolo) propende a ritenere ipotizzabile una presenza di materiale aristo-
telico nell’operetta; la quale peraltro, così come il suo corrispettivo appartenente
al Codice Marciano, ed. Mutschmann 1906, deve ritenersi frutto, nell’insieme, di
esercizio di scuola interno all’Accademia.
New York 1973, i, pp. 107 sgg.; ivi, n, 1984, p. 521.
platonica, al membro destro della divisione precedente) è stato sostenuto, a ragione,
da Ph. Merlan, Beiträge zur Geschichte des Antiken Platonismus, i, «Philologus»,
lxxxix (1934) pp. 35-53, in part. 43; questa interpretazione non solo riconduce esat-
tamente la divisione di Ermodoro allo schema platonico, ma concorda con quanto
sostenuto da Aristotele in più sedi (categ. 6 b 25 sgg.; cfr. lo stesso Περὶ τἀγαθοῦ
nel riferimento di Alessandro, p. 56, 26 sgg. Hayduck). Per Ermodoro rimando a
Senocrate-Ermodoro. Frammenti, cit., pp. 440 sgg., e a quanto là citato circa i paragoni
con Sesto (eccessivamente accentuati soprattutto da H. J. Krämer, Arete cit., pp.
283 sgg., e poi Id., Der Ursprung der Geistmetaphysik, Amsterdam 1964, p. 55; Id.,
Platonismus und hellenistische Philosophie, Berlin-New York 1971, pp. 82 sgg.). La
struttura della divisione di Sesto è stata più volte tracciata dagli interpreti, ed è
curioso come questo possa non aver detto nulla ad alcuni circa la sua evidente non
platonicità, mentre ancora fedelmente platonica è quella ermodorea. La tracciamo
qui nuovamente per esigenza di chiarezza:
relativo: cfr. categ. 6 a 26 sgg., ove ἴσον e ἄνισον sono classificati sotto la categoria
della quantità. Quando Aristotele parla dello ἄνισον come πρός τι riferendosi agli
Accademici (metaph. Ν 2.1089 b 5), non si tratta dell’idea del relativo, ma del “se-
condo principio” come disuguaglianza e relatività assoluta (cfr. anche 1087 b 5, per
l’accenno a Platonici che ritenevano di poter dare al secondo principio tale denomina-
zione). L’argomento che poggia sull’idea dell’uguale non è certo valido a dimostrare
che con ciò, implicitamente almeno, gli Accademici ammettessero idee dei relativi;
è questo un punto scottante nella tradizione platonica, perché ammettere che esistano
non solo le idee di due realtà in relazione, ma anche l’idea della loro relazione poteva
prestare facilmente il fianco ad argomenti tipo quello del “terzo uomo”, comportanti
il problema di una indefinita moltiplicazione delle idee. Tutto questo è rivelato molto
chiaramente, nonostante il carattere tardivo del passo, da Plotino, enn. vi 1, 7-9.
Filos. », xli (1986) pp. 3-18; e, in risposta a M. Mignucci, The Stoic notìon of relatives,
in Matter and Metaphysics cit., pp. 129-217, a Ancora su Simplicio e le categorie,
«Riv. St. Filos.», xlv (1990) pp. 725-32.
τόπος della letteratura pitagorica di età ellenistica: cfr. per un esempio assai chiaro,
ps. Archita, Περὶ ἀρχῶν, ρ. 19 Thesleff, ove compaiono le due συστοιχίαι dei
τεταγμένα kaὶ ὡριστά e degli ἄταkτα καὶ ἀόριστα dipendenti dai due principi. Le
radici, certamente, sono da cercarsi più a monte; non certo nel pensiero di Platone,
ma in quell’amalgama di platonismo e pitagorismo di cui Aristotele ci riporta gli echi
(cfr. nel riferimento di Simpl. in Aristot. de cael, p. 386, 9-23 Heiberg = fr. 10,
p. 137 Ross).
357-8; costituirebbe il fr. 122 a di una futura possibile seconda edizione dei fram-
menti di Speusippo. H. Cherniss, Aristotle’s Criticism cit., p. 143, preferiva vedere
un accenno a Senocrate, la cui cosmologia tuttavia non appare fondata su alcun princi-
pio tetradico. H. Dörrie, Der Platonismus cit., i, p. 346, pensa ad una possibile attri-
buzione della teoria a Teodoro di Soli, esegeta del quale peraltro troppo poco cono-
sciamo per aver possibilità di confronti.
hardy, Eratosthenica, Berlin 1822, cfr. oggi H. Dörrie, Der Platonismus cit., i, pp.
350-61; ad esso si rimanda per la raccolta dei frammenti e la letteratura critica segna-
lata. Incertezze intorno al titolo, che potrebbe anche esser dovuto all’aneddotica ri-
portata presumibilmente all’inizio, su Platone, e non a ragioni più teoriche e di fondo;
cfr. già G. Bernhardy, op. cit., p. 169.
matics, I, London-Cambridge Μ. 19512, p. 296) riteneva che l’epigramma fosse
stato desunto da un monumento votivo, e posto in calce alla lettera.
125 sgg., 176 sgg. e nota pp. 369-70; il quale però riteneva che la teoria fosse poi
stata accettata da Platone, cosa di cui non solo non abbiamo prova, ma, stando
ad Aristot. metaph. A 9. 992 a 20 sgg., avremmo ragione di supporre il contrario.
Non concordo con le successive attribuzioni della teoria a Speusippo fatte da H.
Cherniss, Aristotle’s Criticism cit., pp. 396 sgg. e, sulle sue orme, da L. Tarán, Speu-
sippus of Athens cit., pp. 362-3.
Napoli 1989, pp. 54-6, per la discussione di questo punto; cfr. anche la rec. a L.
Tarán, Speusippus of Athens cit., in «Archiv f. Geschichte d. Philosophie», lxvii
(1985) pp. 102-8.
scrive, riserve non giustificate sull’attribuibilità del passo ad Archita; già a suo tempo
E. Frank, Plato cit., pp. 378-9, pur mettendo il passo in evidenza, aveva ipotizzato
un suo passaggio attraverso una problematica platonizzante, il che non mi sembra
giustificarsi, a meno che non si voglia tentare una non impossibile ipotesi di contrap-
posizione di Archita alla teoria cosmologica su base poliedrica del Timeo (non ci è
nota la data della morte di Archita; H. Thesleff, An Introduction to the Pythagorean
Writings of Hellenistic Period, «Acta Academiae Aboensis», xxiv (1961) p. 97 nota
1, si chiede se essa non possa esser posteriore alla morte di Platone).
5; e cfr. l’ampio commento della Timpanaro ad loc.
de nat. hom. ι 2, xv p. 30 Kühn); per la storia di questa distinzione nella Stoa cfr.
M. Lapidge, Ἀρχαί and στοιχεῖα. A problem in Stoic cosmology, «Phronesis», xviii
(1973) pp. 240-78.
distinzione fra l’Uno che è ὑπεράνω e che è ἀρχή, e i due principi uno e dualità
posti come opposizione, che sono semplicemente στοιχεῖα. La distinzione si imponeva
evidentemente a Eudoro dopo la speculazione ellenistica. Ma anche in questo caso
i “Pitagorici” di Sesto sembrano differenziarsi dal platonismo pitagorizzante alessan-
drino del I secolo.
aporie circa l’unità dell’idea stessa di uno, che, “partecipata” da più realtà, dovrebbe
divenire divisibile contro la stessa essenza dell’unità, portano l’eco di Parm. 129 d-e.
prende direttamente di petto la teoria della composizione dell’anima nel Timeo (τὴν
κρᾶσιν τῆς ἀμέριστου καὶ μεριστῆς οὐσίας καὶ τῆς ταθέρου φύσεως καὶ τἀuτοῦ) defi-
nendo il tutto ληρώδες. In PH ιιι 136 cfr. il dubitativo Ἀριστοτέλης δέ, ἢ ὥς τίνες
Πλάτων a proposito di una determinata definizione del tempo non resaci dai dialoghi;
Sesto appare prudente nelle sue attribuzioni.
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